Rwanda, il più grande errore dell'Onu e delle Ong
Sconfitti nella guerra civile e fuggiti dal loro Paese, i responsabili del genocidio in Rwanda si rifugiarono nello Zaire, sotto la protezione dell'Onu e di numerose Ong. E, sotto gli occhi degli operatori umanitari, prepararono un'altra guerra.
Nei primi 100 giorni del 2014 in Nigeria sono morte 1.500 persone, oltre metà delle quali civili, per gli attacchi del movimento integralista islamico Boko Haram; almeno il doppio sono state uccise dai miliziani islamici Seleka e da quelli cristiani Anti-Balaka nella Repubblica Centrafricana dove da dicembre la situazione è definita di “pre-genocidio”; in Sud Sudan altre 10.000 persone hanno perso la vita a causa della pulizia etnica scatenata dallo scontro tra due etnie, i Dinka e i Nuer. Sono cifre impressionanti: si tratta di una media da 15 a 100 decessi al giorno.
In Rwanda, nel 1994, per 100 giorni a partire dal 7 aprile, la media giornaliera dei morti ha oscillato tra i 5.000 e i 10.000: in gran parte uccisi a colpi di panga (una specie di falcetto usato in tutta l’Africa e spesso confuso con il machete, n.d.a.), di lancia e di bastone, o bruciati vivi, un genocidio che ha colorato di rosso e riempito di cadaveri la terra e i fiumi del paese “delle mille colline”. I sopravvissuti raccontavano in seguito di persone che avevano “comprato” una morte istantanea pagando i loro carnefici per essere uccise a colpi di arma da fuoco ed evitare così una fine dolorosa per le torture e le ferite da arma bianca.
Oltreconfine, intanto, si preparava una nuova tragedia. L’esodo in pochi giorni di oltre due milioni di Hutu provocò infatti una delle più gravi crisi umanitarie del pianeta. Le risorse per far fronte all’emergenza non mancarono. Almeno 250 Ong, organizzazioni non governative, internazionali e otto agenzie Onu affiancarono una moltitudine di Ong locali. I campi dei profughi furono dotati di tutto il necessario e anche del superfluo. Un anno dopo la loro installazione, in quelli di Goma si contavano 2.324 bar, 450 ristoranti, 590 negozi, 60 parrucchieri, 25 macellai, 50 farmacie, 30 sarti, cinque fabbri, quattro studi fotografici, tre cinematografi, due alberghi e un macello. La loro vicinanza al Rwanda consentì inoltre a molti profughi di ricuperare almeno una parte dei beni che avevano abbandonato in patria al momento della fuga. Ma nei primi mesi le condizioni di vita furono estremamente difficili e non fu possibile impedire il dilagare di epidemie. All’inizio di luglio si registravano 600 morti alla settimana, due settimane dopo, con l’aumento vertiginoso dei profughi, erano diventati 2.000 ed entro la fine del mese le perdite salirono a 2.000-3.000 al giorno. Colera, dissenteria, meningite e altre malattie uccisero in pochi mesi non meno di 50.000 persone.
Dal 13 luglio, dopo la disfatta dell’esercito governativo rwandese, i profughi Hutu entrarono in Zaire al ritmo di 10.000-12.000 all’ora. Insieme alla gente comune, si riversarono nei campi di Goma quasi tutta la classe politica Hutu, decine di migliaia di miliziani Interahmwe e Impuzamugambi e la maggior parte dei militari dell’esercito governativo superstiti, ancora armati e dotati di mezzi di trasporto: in altre parole, i responsabili e gli autori materiali del genocidio che da quel momento si servirono dei campi profughi come basi per compiere incursioni in Rwanda e per riorganizzarsi mentre la comunità internazionale si prendeva cura di loro. Pochi mesi dopo la fine del genocidio, i miliziani Hutu iniziarono ad attaccare i villaggi dei Banyamulenge, comunità di Tutsi emigrati dal Ruanda nell’Est dello Zaire alla fine del XIX secolo. Nel 1995 il Rwanda decise quindi di armare i Banyamulenge contro gli estremisti Hutu.
Intanto, mentre la crisi umanitaria si stabilizzava, nei campi sorsero altri problemi. I leader politici Hutu istituirono una sorta di governo informale, dissimulato con un sistema di “leader popolari eletti” che agivano per conto loro, e incaricarono militari, Interahmwe e Impuzamugambi di controllare i campi. Dei posti di blocco impedivano ai profughi di uscirne senza autorizzazione. Chi disobbediva, metteva in discussione l’autorità dei leader Hutu o esprimeva anche solo l’intenzione di tornare in Rwanda veniva accusato di tradimento e punito duramente, picchiato, mutilato e persino ucciso. Altre migliaia di persone persero così la vita.
Inoltre i leader Hutu riuscirono a mettere le mani sugli aiuti umanitari pretendendo che fossero gestiti dai “leader popolari”. Questi esigevano una percentuale sulle razioni alimentari distribuite e sugli stipendi pagati ai profughi assunti dalle Ong e dall’Onu per svolgere diverse mansioni. Protetti dalle milizie armate, impedivano l’accesso alle razioni alimentari a chi li contestava. Mentendo sul numero dei profughi di un certo settore, ottenevano più cibo del necessario: ne usavano una parte per ricompensare i collaboratori e vendevano il resto a chi era in grado di pagare.
Tutto questo succedeva sotto gli occhi degli operatori umanitari. Si sparse sempre più insistente la voce che l’intervento umanitario stava assistendo degli assassini. La situazione divenne insostenibile al punto che alcune tra le Ong professionalmente più preparate decisero di andarsene. La prima fu Medici senza frontiere, seguita dall’International Rescue Committee, da Oxfam, Save the Children e Care. Quelle che scelsero di rimanere lo fecero sostenendo che non si potevano abbandonare degli innocenti, anche a costo di continuare a ospitare e a lasciar liberi di agire i “refugee warriors”, i guerrieri profughi: così sono chiamati i combattenti che si mescolano alla gente comune nei campi profughi (dove si stima che costituiscano in media dal 15 al 20% della popolazione ospitata).
Non si capì che, così facendo, si preparava il terreno per altri conflitti e per crisi umanitarie di dimensioni ancora maggiori. Le due successive guerre combattute in Zaire (poi Repubblica Democratica del Congo) tra il 1996 e il 2003 sarebbero costate altri cinque milioni di morti.