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SENATO

Riforma a rischio. Ecco chi vuole il voto anticipato

Renzi ha i numeri per far passare entro il 15 ottobre la riforma del Senato? Lo scenario potrebbe cambiare, ma al momento pare di no. La minoranza dem si è spaccata e 25 senatori potrebbero non votare il ddl Boschi. Inoltre, almeno 10 senatori Ncd non sembrano disposti a far passare la riforma.

Politica 17_09_2015
Il premier Matteo Renzi

Renzi ha i numeri per far passare entro il 15 ottobre la riforma del Senato? Lo scenario potrebbe cambiare, ma al momento pare di no. La minoranza dem si è spaccata e 25 senatori potrebbero non votare il ddl Boschi. Inoltre, almeno 10 senatori Ncd non sembrano disposti a far passare la riforma. Ma i moventi delle due pattuglie di dissidenti sono diversi. Anzitutto va registrata una melina tra maggioranza e opposizione circa il luogo in cui discutere della riforma. I renziani, consapevoli di non avere la maggioranza in Commissione Affari costituzionali, hanno puntato sull’immediato approdo del testo in aula, dove confidano nell’appoggio di qualche “responsabile”. 

Le opposizioni, da Lega a Sel, dal Movimento Cinque Stelle a Forza Italia, pur di evitare che l’assemblea di Palazzo Madama possa dare l’ok al testo e quindi decretare la vittoria di Renzi e dei suoi, hanno annunciato, per bocca del leghista Roberto Calderoli, la loro decisione di ritirare quasi tutti i 500.000 emendamenti presentati, rendendo quindi praticabile la ripresa del confronto in Commissione. Ma la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama, a maggioranza, ha approvato la richiesta del governo e quindi da oggi sarà direttamente l’aula a discutere il testo della riforma. Renzi teme imboscate e non vuole rischiare di far slittare oltre il 15 ottobre l’approvazione del Nuovo Senato perché incombe la Legge di stabilità. Ecco perché ha convocato per lunedì pomeriggio la direzione del Pd con un’indicazione tematica ben precisa: le riforme. Nel frattempo confida nel fatto di riuscire a convincere qualche dissidente a uscire dall’aula al momento della votazione finale, al fine di far abbassare il quorum.

Lo strappo dentro il Pd è comunque nei fatti e eventuali ricuciture appaiono al momento non scontate. Martedì la senatrice della minoranza dem, Doris Lo Moro, bersaniana doc, aveva abbandonato la riunione del Pd con il ministro Maria Elena Boschi e i capigruppo di Camera e Senato, Ettore Rosato e Luigi Zanda, proprio perché non si stava discutendo dell’essenza della riforma, quel contrastatissimo articolo 2 sulle modalità di elezione del Nuovo Senato, né dei poteri della nuova assemblea di Palazzo Madama. Ago della bilancia rimane il presidente del Senato, Pietro Grasso, che dovrà decidere se rimettere ai voti l’articolo 2, che sancisce il Senato delle autonomie, o se darlo per approvato in via definitiva. Dalla decisione della seconda carica dello Stato dipende l’iter del disegno di legge Boschi, anche perché il dissenso non coinvolge solo la minoranza dem, ma anche il Gruppo Misto e, soprattutto, il Nuovo Centrodestra.

Nel partito di Alfano ormai c’è una linea di demarcazione molto netta tra chi vorrebbe consolidare l’alleanzacon Renzi e quindi traslocare definitivamente nel centrosinistra e chi invece vorrebbe riavvicinarsi a Forza Italia e provare a bilanciare la posizione dominante di Salvini all’interno del centrodestra. Un manipolo di senatori meridionali del Nuovo Centrodestra avrebbero fatto due conti e riterrebbero più conveniente e strategico per loro far saltare il tavolo delle riforme e andare a elezioni anticipate. Il ragionamento che avrebbero fatto sarebbe più o meno il seguente. Se il Senato cambia volto, quelle poltrone non ci sono più e bisogna eventualmente tentare di candidarsi alla Camera, ma con una legge elettorale, l’Italicum, che prevede uno sbarramento al 3% su base nazionale. Non è detto che Area popolare, in considerazione degli scandali che hanno coinvolto molti suoi esponenti, raggiunga quella soglia. 

Peraltro i seggi non sarebbero tantissimi, anche con un risultato di poco superiore a quella percentuale minima. E allora meglio costringere Renzi a dimettersi. Il premier ha già fatto sapere che il Pd non appoggerebbe altri governi in questa legislatura. In caso di bocciatura a Palazzo Madama del disegno di legge Boschi, a Mattarella non resterebbe altro da fare che sciogliere le Camere e a quel punto anche il Senato resterebbe in vita così com’è e per molti senatori uscenti ci sarebbe la possibilità di ricandidarsi. Si voterebbe con il Consultellum, che prevede uno sbarramento dell’8% su base regionale, assolutamente alla portata del partito di Alfano almeno in alcune regioni del Sud come Sicilia, Calabria e Campania. Quindi, se per alcuni parlamentari alfaniani l’obiettivo è soltanto quello di salvare la poltrona anche per la prossima legislatura, per gli esponenti della minoranza dem il disegno è quello di imbrigliare il premier, costringendolo all’insuccesso sulle riforme per indebolirlo e per strappargli una maggiore collegialità nelle scelte di governo e di partito.

Tra le opposizioni che non disdegnerebbero il ritorno alle urne c’è anche Sinistra Ecologia e Libertà, che teme di essere condannata all’inutilità, considerato che l’area della sinistra più ideologica è presidiata da Civati e Fassina, con Vendola costretto a inseguirli sul terreno del massimalismo. Tornare presto alle urne con le attuali regole vorrebbe dire guadagnarsi quasi sicuramente la possibilità, per molti esponenti delle opposizioni, di tornare in Parlamento e di essere perfino determinanti nella formazione di una nuova composita maggioranza per portare a compimento, nella prossima legislatura, il percorso riformatore. Renzi vorrebbe sbarazzarsi di loro e condannare all’insignificanza queste forze politiche di minoranza. Loro l’hanno capito e vogliono correre ai ripari prima di essere travolti dalla rottamazione.