Renzi ha già finito il suo "ritiro" e occupa tutto il Pd
Aveva promesso di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta al referendum. Lo ha perso clamorosamente, ma a sei mesi di distanza è tornato sulla scena politica da leader del PD. Sia lui che Maria Elena Boschi stanno occupando tutti gli spazi di potere nel partito e (nel caso della Boschi) anche nel governo.
L’assemblea nazionale Pd ha rieletto Matteo Renzi segretario, dopo che le primarie di domenica scorsa l’avevano premiato con oltre il 70% dei consensi ai gazebo. L’ex premier, nel suo discorso di insediamento, ha rispolverato i suoi tradizionali cavalli di battaglia: sospensione delle faide interne al partito, leale sostegno al governo Gentiloni, rilancio della presenza del Pd sul territorio e nel web (per rincorrere i grillini). Ma la sua incoronazione rischia di rappresentare l’inizio della fine per lui.
Anzitutto perché ora il grande pubblico, non solo il suo elettorato, ha avuto la rappresentazione plastica del tradimento delle sue promesse di sei mesi fa, quando annunciò il suo ritiro dalla politica qualora avesse perso il referendum costituzionale. Il referendum l’ha perso in modo cocente ma ha fatto finta di fare un passo indietro per poi farne due in avanti. Pur privo di incarichi e di legittimazione popolare, ha continuato in questi mesi a tessere la sua trama di potere dietro le quinte, condizionando partito e governo e ha imposto primarie in tempi brevissimi, senza alcun dibattito interno. Stessa cosa dicasi per il ministro Maria Elena Boschi, che, durante una puntata di In mezz’ora, trasmissione domenicale condotta da Lucia Annunziata, si era accodata a Renzi, assicurando il suo ritiro dalla politica qualora i “no” avessero prevalso nelle urne referendarie. Neppure lei è stata di parola, essendo rimasta in prima linea, addirittura con un incarico governativo delicatissimo, quello di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. E’ di queste ore, peraltro, la polemica sul suo crescente potere. Una circolare impone d’ora in poi a tutti i ministri di far passare dai suoi uffici ogni nomina, atto, documento, impegno di spesa, quindi spetta a lei l’ultima parola sulle decisioni dei vari dicasteri.
Ma il malessere nel Pd è evidente per questa gestione accentratrice che rischia di criminalizzare il dissenso interno e di provocare nuove scissioni. Ieri il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sonoramente sconfitto alle primarie, ha ribadito che lui a Berlusconi preferisce Bersani. Un monito chiaro e netto al neosegretario affinchè non lavori per larghe intese dopo il voto, bensì si impegni a rinsaldare l’asse con gli scissionisti e la sinistra ideologica di Pisapia, Boldrini e altri.
L’altro sfidante alle primarie, il governatore della Puglia, Michele Emiliano, pur essendo rimasto nel partito, continua a criticare aspramente il renzismo e ad aprire al dialogo con i grillini, che invece per Renzi rappresentano il vero avversario da battere.
Non è un caso che l’ex premier abbia sbandierato ai quattro venti l’ultimo sondaggio che, dopo tanto tempo, vede i dem nuovamente in vantaggio sui pentastellati. Ma affinchè questa tendenza si consolidi, ammesso che sia lo specchio fedele dei flussi elettorali e non una loro distorsione, occorrerà, per Matteo, prendere le distanze dal governo. Se Gentiloni dovesse fare particolarmente bene per un altro anno, sarebbe difficile giustificare agli occhi dell’elettorato il cambio di timoniere e proporre alle urne un altro candidato premier, appunto Matteo Renzi. Dunque Gentiloni, nella mente del neosegretario Pd, va logorato dolcemente, e il governo va incalzato sulle cose da fare ma senza che ne faccia troppe, soprattutto di quelle impopolari e destinate a far perdere voti.
Di Alitalia non si potrà parlare troppo perché da una parte non bisogna irritare l’opinione pubblica con nuovi salvagenti a un’azienda decotta e dall’altra non bisogna scatenare la rabbia dei 20.000 dipendenti della compagnia di bandiera che rischiano il posto di lavoro.
Anche il tema del possibile aumento dell’Iva deve rimanere un tabù fino alle prossime elezioni, poiché sarebbe troppo divisivo e aprirebbe ostilità forse insanabili tra governo e imprese. Senza contare il fronte bancario, con molti istituti di credito in crisi, e un esecutivo chiamato ad affrontare nodi spinosi, con il concreto rischio di dover ancora una volta ricorrere a spericolate manovre “salvabanche”, con altri soldi pubblici da impiegare.
Infine la manovra finanziaria d’autunno, che rischia di trasformarsi in un regalo elettorale per le forze populiste. Renzi lo sa ed è per questo che in pubblico giura sostegno all’esecutivo e in privato cerca pretesti per staccargli la spina. Qualora, però, riuscisse nell’intento di andare alle urne subito e perdesse poi le elezioni anticipate, il suo futuro politico sarebbe irrimediabilmente compromesso. O la va o la spacca, sembra dire il ringalluzzito neosegretario. Ma gli conviene forzare la mano con il Quirinale e con l’elettorato? E, soprattutto, i gruppi parlamentari Pd saranno disposti a fare quello che dice Renzi nella discussione sulla legge elettorale, sapendo che con il sistema di voto auspicato dal neosegretario molti avrebbero la certezza di non essere rieletti?