Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
CHI VINCE OGNI MALE

Rapper: «Drogato, sfidavo il Dio che mi salvò dall'abisso»

«Dovevo avere un destino segnato, tutti i dati della mia vita mi davano per spacciato, ma Dio ha cambiato il mio finale. “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”, così è scritto nell’Apocalisse», spiega a La NuovaBQ il rapper Thomas Valsecchi in arte Shoek. Abbandonato dalla madre che gli offriva la droga, cominicò a prostituirsi, spacciare e venne arrestato: «Accusavo il Signore, finché mi mostrò il suo amore...».

 

Cultura 26_03_2020

Mentre si è discusso sulla partecipazione a Sanremo del rapper Junior Cally, autore di testi violentissimi ma paradossalmente ormai difeso da troppi, in Italia c’è un rapper autenticamente controcorrente, di assoluta qualità musicale, ma che difficilmente vedremo mai in concorso al Festival. Si chiama Thomas Valsecchi, classe ’86, in arte Shoek. É un rapper cristiano con alle spalle una storia dolorosa ed estrema, sicuramente non costruita a tavolino dalle major discografiche. Dalla nascita nella Comunità di recupero di San Patrignano, passando per un’adolescenza vissuta tra droga e dissoluzione, la sua vita, grazie all’incontro con Cristo, si è trasformata in una testimonianza di perdono e redenzione. Oggi nei sui concerti Shoek lancia appassionati messaggi cristiani. La NuovaBQ, a margine di una sua testimonianza su Radio Maria, ha incontrato il pioniere italiano del “gospel rap”.

Nell’immaginario collettivo, un rapper che nasce in una comunità di recupero sembra avere un destino segnato. Non trovi?
É così, ma Dio ha cambiato il mio finale. “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”, così è scritto nell’Apocalisse.

Quanto sei vissuto in comunità?
Sono rimasto nella Comunità di Vincenzo Muccioli fino all’età di 3-4 anni. Appena uscirono, i miei genitori si separarono e mia madre poco dopo mi abbandonò.

Ti ha cresciuto un padre coraggioso allora...
Ho sempre considerato mio padre un combattente: lavorava la notte per mandare avanti la casa, cosa che per uno che aveva iniziato a farsi all’età di 12 anni era già tantissimo. Avrebbe potuto lasciarmi, farmi adottare, ma non ha mai voluto. Gliene sarò per sempre grato.

Che vita facevate?
Di notte lavorava duramente e di giorno dormiva per recuperare. Ero sempre solo, e quando i fine settimana potevo stare con lui mi portava in giro con i suoi amici. Spessissimo mi ritrovato in discoteca o in qualche night-club.

La sera al night-club e la mattina a scuola. Come facevi a far convivere ambienti così lontani?
Alle elementare, infatti, non riuscivo a socializzare. I miei amici parlavano di cartoni animati, di dormire a casa dell’amichetto…

E tu?
Io parlavo di sesso e di musica, di quello che ascoltavo nei luoghi in cui venivo portato. Nel mio cuore in realtà desideravo ardentemente essere un bambino come gli altri.

Tua madre ti mancava?
Credo che neanche 100 papà possano darti l’amore di una madre. Mi mancava talmente tanto che facevo atti di autolesionismo, mi tagliavo fino a vedere il sangue. É che mi sentivo in colpa, mi sentivo la causa del fatto che mia madre non mi volesse.

Un giorno rompesti gli indugi e andasti a cercarla. Come andò?
Andò che mi offrì la cocaina. Era un rapporto malato. Non era quello che desideravo ma facevo finta di stare bene, seppure per pochi istanti mi sembrava di avere una madre.

Preso dalla disperazione iniziasti a prendertela con Dio.
Cercavo di provocare Dio in tutte le maniere, ero disperato. Come il nanetto Zaccheo saliva sul Sicomoro, anch’io per incrociare lo sguardo di Gesù ero disposto a rendermi ridicolo agli occhi delle persone.

Facendo cosa?
Entrando in chiesa in condizioni penose, infastidendo tutti, finché il prete non era costretto ad allontanarmi. Era un modo folle, ma volevo anch’io che Gesù incontrasse il mio sguardo, che almeno si accorgesse di me!

A che età succedeva tutto questo?
A 14 anni. Avevo assoluto bisogno di capire perché mia madre mi avesse abbandonato, e perché mio padre fosse così malato e fragile. Imploravo Dio di farsi vivo.

Com’è avvenuta la svolta benedetta nella tua vita?
Attraverso una ragazza, Emily. Ogni giorno mi si sedeva a fianco sul pullman della scuola e mi diceva: “Gesù ti ama”. Ero molto innervosito da quelle parole perché nella mia esistenza sentivo esattamente il contrario: odio, indifferenza, solitudine. Non volevo più sentirla e una mattina arrivai a minacciarla.

Non credo che chi annuncia il kerigma con tanto coraggio possa essersi arresa così
Infatti. Lo stesso giorno, al ritorno da scuola, mi avvicinò un biglietto in cui era scritto: «Se non vuoi che ti parli allora te lo scrivo: “Gesù ti ama”».

…Però! É stata Emily, dunque, il tuo personale “buon samaritano”?
Sì, anche perché mi regalò una Bibbia. Ricordo benissimo la sera in cui, preso dalla disperazione, l’aprii a caso e lessi quanto Gesù rispose a chi lo rimproverava di mangiare con i pubblicani: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Non conoscevi quelle parole?
No. É difficile spiegare quale immagine di Dio giudicante può avere in testa chi si disprezza profondamente. Ma siccome la parola di Dio è efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio, quel versetto di Matteo mi folgorò, mi fece sentire profondamente amato, per la prima volta nella mia vita.

Nel tuo percorso di vita c’è stato però una ricaduta pesante…
Sì, avevo troppe ferite per guarire subito… Andai in Sudamerica ed entrai in una gang. Per procurarmi la droga arrivai anche a prostituirmi. Tornai in Italia e fui arrestato per spaccio. Fu il punto più basso della mia vita. Ancora una volta è come dice la Scrittura: ero il cane che torna al suo vomito.

Fu allora che decidesti di entrare anche tu in una comunità?
Sì. Non volli solo disintossicarmi dalla droga ma implorai il Signore di non diventare un cristiano tiepido. Ormai sapevo che Gesù era venuto per i malati, per i  peccatori, per me, e anche con l’aiuto della comunità missionaria evangelica che nel frattempo avevo incontrato e con cui avrei poi frequentato una Scuola biblica (la YWAM, Youth with a mission, ndr) desideravo imitare le parole di Paolo: «Non sono io che vivo ma Cristo che vive in me».

Da lì il tuo progetto musicale, nato come un patto con Dio.
Dissi al Signore: «Le uniche cose che io so fare sono il rap e spacciare. Posso fare questo per te: spaccio la tua parola e faccio rap cristiano». Molti ridono quando racconto questo “accordo” con Lui, ma andò esattamente così.

Quali sono le realtà che oggi ti invitano per i tuoi concerti testimonianza?
Comunità cristiane di ogni denominazione, ma anche associazioni, scuole, discoteche. Ho cantato anche al Cororicò di Riccione, la discoteca più grande d’Italia. Il titolare mi disse: «Non sono credente, ma piuttosto che vedere i ragazzi impasticcati preferisco il messaggio che dai tu».

Recentemente sei stato ospite dell’Ipsia “Antonio Guastaferro” di San Benedetto del Tronto. Sei stato in quella scuola per due volte nel giro di soli 10 giorni, come mai?
Il primo incontro è stato organizzato dalla Preside. Purtroppo però sono stato limitato nel parlare di Gesù: i professori si sono messi di traverso, volevano che parlassi solo contro la droga. Molti alunni però mi seguivano sui social e sapevano bene chi era Colui che aveva stravolto la mia vita.

Quindi?
Dopo una manciata di giorni dalla mia prima visita, i ragazzi hanno raccolto le firme per farmi tornare. Volevano che parlassi di Dio, di come ha guarito le mie ferite, tanto che hanno pensato loro al service per il concerto.

La preside?
Era felicissima, mi ha confidato che non li aveva mai visti così interessati.

Nella storia d’amore che finalmente stai avendo con Dio, contempli la possibilità che ci siano ancora altri doni da scoprire? Come reagiresti, ad esempio, se qualcuno ti augurasse di incontrare la figura di Maria?
Non sono un bigotto chiuso in me stesso. Anche se sono nato spiritualmente in una chiesa evangelica, collaboro e amo la chiesa cattolica. «Se credo in qualcosa di sbagliato, mostramelo», questo è quello che dico a Dio. Se domani mi facesse incontrare l’amore della Madonna ne sarei ben felice.

Si chiama onestà intellettuale, oggi merce rara anche nella Chiesa…
Be’, io so solo che non voglio chiudere Dio in una scatoletta e non faccio Dio a mia immagine e somiglianza, semmai sono io a desiderare di essere sempre più a immagine Sua. Lo devo a mia figlia Melody, ha sei anni e da grande dovrà andare orgogliosa del Dio che ha avuto misericordia di suo padre.