Questo matrimonio (gay) s'ha da fare. Proprio così
C'è un aspetto del dibattito sul matrimonio gay che Matteo Renzi vuole imporre già a settembre, che talora è fatto passare per secondario, ma è invece centrale. Si tratta della cerimonia in Comune che consacrerà, secondo le proposte di Renzi, l'unione civile fra due omosessuali e due lesbiche e che dovrà essere «identica» al matrimonio civile.
C'è un aspetto del dibattito sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, che Matteo Renzi vuole imporre agli italiani già a settembre, che è talora nascosto o fatto passare per secondario, ma è invece centrale. Attenzione: se non si capisce la centralità di questo elemento la battaglia è già persa. Si tratta della cerimonia in Comune che consacrerà secondo le proposte di Renzi l'unione civile fra due omosessuali e due lesbiche e che, secondo i modelli inglese e tedesco, dovrà essere «identica» al matrimonio civile fra due persone di sesso diverso. Intervistato da La Stampa il 29 luglio, Stefano Lepri, vicepresidente dei senatori del Partito Democratico, vicinissimo a Renzi, ha spiegato che questa è la linea del Piave del suo partito: si potrà trovare una mediazione su altre cose, non sulla cerimonia. Successe lo stesso in Inghilterra, dove in più una parte della magistratura andò a caccia con ferocia di chi nei Comuni non officiava cerimonie «identiche», multando e licenziando, e generando casi che poi finirono alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
Perché, si potrebbe dire, tutte queste cerimonie per una cerimonia? Renzi e gli stessi attivisti Lgbt non sono forse tipi pratici, che badano alla sostanza e non alle cerimonie? Qualche volta la sociologia serve a qualcosa, e aiuta a capire. Proviamo a cercare risposte nel corposo (oltre quattrocento pagine) trattato di micro-sociologia del massimo esponente mondiale di questa disciplina, Randall Collins («Interaction Ritual Chains», Princeton University Press, 2004). Il cuore della micro-sociologia - come già aveva intuito uno dei padri della sociologia moderna, Émile Durkheim (1858-1917), è la nozione di rituale. In verità, tutta la nostra vita è scandita da rituali. Dal salutarsi al chiedersi “Come sta?” e al conversare prendendo un caffè, passando per tutte le attività che si riferiscono all’amore e alla sessualità (centrali nelle analisi di Randall Collins) la vita è piena di rituali, che talora non ci rendiamo conto di compiere, proprio come il borghese di Molière non si rendeva conto di stare facendo della prosa ogni volta che parlava (dal momento che non parlava in poesia). I rituali creano energia emotiva, l’“effervescenza collettiva” di cui parlava Durkheim, e influenzano in modo profondo e definitivo, anche se non sempre consapevole, la vita dei singoli e delle società.
I rituali hanno però anche un altro effetto. Creano, confermano e rafforzano le gerarchie, che (piaccia o no) sono onnipresenti in ogni tipo di società umana. La micro-sociologia distingue fra gerarchie situazionali e strutturali. Le gerarchie strutturali esistono prima dei rituali: posso celebrare in modo rituale la mia relazione di padre con mio figlio, ma che io sia il padre e lui sia il figlio è già chiaro prima di qualunque rituale. Le gerarchie situazionali sono invece create dal rituale. Se la regina d'Inghilterra nomina qualcuno baronetto in una solenne cerimonia, crea una posizione gerarchica nuova per quel qualcuno, che prima non esisteva. La cerimonia che «consacra» (già la parola fa riferimento alla forza sacralizzante del rituale) l'unione fra due persone dello stesso sesso in Municipio crea una gerarchia situazionale che prima non esisteva. Fa entrare quelle due persone nella sfera delle persone «sposate», che è socialmente diversa rispetto a quella delle persone che semplicemente convivono. Non conta, o conta poco, se si usi o no la parola «matrimonio». Il rituale ha una sua forza persuasiva che prescinde dalle parole.
Lo sanno bene i massoni: e lo sapeva bene il cardinale Ratzinger che, rinnovando nel 1983 il divieto per i cattolici di aderire alla massoneria in quanto scuola di relativismo, spiegava che «la forza del rituale» massonico trasmette di per sé la mentalità relativista, quand'anche a questa non si chiedesse di aderire esplicitamente. Pertanto, non è la stessa cosa se si sigla un semplice contratto da un notaio per regolare alcuni aspetti patrimoniali di una convivenza o se si passa attraverso la dinamica trasformante di un rituale uguale a quello del matrimonio. La forza dei rituali non va mai sottovalutata. Lo sapeva chi aveva voluto le «unioni civili» fra omosessuali in Inghilterra. Sapeva che di fronte a una cerimonia «identica» i giornali e lo stesso linguaggio comune dopo un po' si sarebbero stufati del neologismo «civilunit» e di altre espressioni esotiche e avrebbero cominciato a scrivere che il signor Smith e il signor Jones si erano «sposati». E che il signor Jones ora era il «marito» del signor Smith. La cerimonia non era forse stata la stessa? Sapevano pure che, una volta adottato il nuovo linguaggio, se il Parlamento dopo qualche anno avesse passato una leggina (è successo a Londra, nel 2013) cambiando semplicemente il nome da «unione civile» a «matrimonio» nessuno si sarebbe scaldato più del tanto. La forza del rituale e del linguaggio aveva da tempo convinto l'opinione pubblica che in Inghilterra il «matrimonio» omosessuale ci fosse già.
Il senatore Lepri ci informa nell'intervista che il Ncd si oppone alla cerimonia in Comune per le unioni civili tra omosessuali. Benissimo, è già qualcosa, anche se evidentemente occorrerebbe opporsi alla stessa nozione delle unioni civili, accettando di discutere solo sull'opportunità di mettere insieme in un testo unico i diritti patrimoniali che la normativa italiana già riconosce ai conviventi, siano essi di sesso uguale o diverso, eventualmente risolvendo i pochi problemi pratici ancora aperti. Ma in realtà il discorso può anche essere rovesciato. La cerimonia non è il punto di arrivo, è il punto di partenza ed è la cartina di tornasole delle ipocrisie. I veli sono caduti. Chi accetta la cerimonia vuole il «matrimonio» omosessuale, comunque lo chiami: e finirà per chiamarlo «matrimonio», anche se non subito. Chi invece afferma di volere soltanto regolamentare in modo più chiaro e migliorativo situazioni patrimoniali e amministrative legate alla convivenza può essere considerato in buona fede (salvo poi discutere sulle situazioni una per una) soltanto se dichiara in modo alto e fermo il suo no alla cerimonia. Diversamente, senza cerimonie, va considerato solo un politicante furbastro che cerca di ingannare gli ingenui con il gioco delle tre carte.