Quel "bambino" di Dio che gioca con noi adulti annoiati
Quando un bambino trova un gioco che gli piace, continua instancabilmente a giocare e se lo sta facendo con un adulto gli ripete tante volte “ancora”. Facciamolo ancora, perché mi piace. L’adulto finisce con lo stancarsi, il bambino no. Chesterton paragona Dio ad un bambino che non si annoia mai.
Caro direttore,
torno a parlarti del grande Chesterton. Come sai, sto leggendo “Ortodossia” (Lindau), che è sempre fonte di gioiose sorprese e di giudizi che alimentano il pensiero e, in me, la fede.
Nel quarto capitolo, intitolato “L’etica del paese delle fate”, GKC, per rispondere alle idee atee del determinismo positivista (secondo le quali tutta la realtà sarebbe causata da eventi “obbligati”, non voluti da una libera volontà), usa una immagine insieme poetica e molto profonda, rifacendosi, non a caso, all’esempio del bambino. Egli scrive che quando un bambino trova un gioco che gli piace, continua instancabilmente a giocare e se lo sta facendo con un adulto gli ripete tante volte “ancora”. Facciamolo ancora, perché mi piace.
L’adulto finisce con lo stancarsi, il bambino no. Chesterton paragona Dio ad un bambino che non si annoia mai ed a cui piace ciò che crea, perché lo ritiene bello e “buono”. E l’erba è verde non perché “debba” fatalmente esserlo, ma perché a Dio piace così tanto che continua instancabilmente a volerla “ancora”verde.
Secondo GKC, Dio “possiede in eterno lo stesso entusiasmo dell’infanzia; noi siamo invecchiati perché abbiamo peccato e nostro Padre è più giovane di noi…. Questa idea - continua Chesterton - ha creato in me un’emozione profonda sempre presente, anche a livello inconscio, l’idea cioè che questo nostro mondo abbia un qualche scopo, e dietro uno scopo deve esserci una persona. Ho sempre considerato la vita come una storia, e dietro ogni storia ci deve essere un narratore”. Questo ragionamento ha emozionato anche me. Ed ho pensato che l’uomo di oggi non può neppure avvicinarsi a parole e ad immagini di questo genere, per il semplice fatto che è terribilmente annoiato, visto che ha escluso che la vita possa avere uno scopo.
Il romanziere italiano più famoso e, forse, più influente della nostra epoca è stato Alberto Moravia, le cui opere si intitolano “Gli indifferenti”, “Il disprezzo”, “La noia”, “”Impegno controvoglia”, e così via. Titoli che sottintendono un nichilismo spaventoso, che sottrae all’uomo ogni capacità creativa e, soprattutto, la possibilità di essere lieti. La noia è, probabilmente, la bestemmia maggiore che l’uomo possa esprimere, soprattutto se, come accade oggi, è stato spento anche ogni senso religioso. Leopardi sembrava annoiato, ma aveva dentro di sé una domanda che non lo abbandonava. Moravia era solo annoiato e disperato. E purtoppo ha diffuso nell’intera società questo sentimento negativo ed oggi se ne vedono i frutti velenosi.
Caro direttore, tra questi frutti velenosi, si è fatta strada una concezione per la quale si sta valorizzando positivamente una terribile esperienza che il cristianesimo aveva sempre giudicato molto severamente. Sto parlando del suicidio. Ricordiamo tutti che il nostro presidente della Repubblica di allora giudicò come espressione di una grande libertà il suicidio di un famoso regista cinematografico. Ed è cronaca di questo periodo la battaglia (anche giudiziaria) di un noto leader radicale tesa a trasformare anche il suicidio in un “diritto”. Nel capitolo quinto di Ortodossia, GKC esprime giudizi severissimi sul tema del suicidio, rifacendosi a quanto Santa Madre Chiesa ha sempre insegnato, essendo anche “Maestra”.
Al termine di una vivace discussione tra gli intellettuali del tempo, il nostro amico arrivò a scrivere che il suicidio “è il male supremo e assoluto, il rifiuto di qualsiasi interesse per l’esistenza, il rifiuto di prestare il giuramento di fedeltà alla vita. L’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo, L’uomo che uccide se stesso, uccide tutti gli uomini, annienta il mondo”. E contro chi osava fare un paragone tra il martire ed il suicida, così scriveva: “il suicida, ovviamente, è l’opposto di un martire. Un martire è qualcuno che ama così tanto qualcosa che sta fuori di lui da dimenticare la propria vita. Il suicidaè un uomo che ama così poco qualsiasi cosa stia fuoti di lui da desiderare di vedere la fine di tutto”.
Caro direttore, naturalmente, non possiamo non avere misericordia per coloro che cadono nella tentazione di farla finita, innanzi tutto comunicando a tutti la speranza che Cristo ha portato in questo povero mondo, condividendo le difficoltà dei nostri fratelli uomini, aiutandoli a vedere le ragioni della vita e pregando intensamente per tutti. Questo non toglie che occorra pur dire la verità, altrimenti la condivisione diventa un nostro piccolo tentativo ammantato di sentimentalismo. La vita è una cosa tremendamente seria e non si può nascondere nulla di essa. La nostra prima responsabilità è quella di testimoniare che noi abbiamo incontrato un Dio che non è annoiato come gli attuali intellettuali, vivendo lietamente le circostanze che ci vengono donate, perché sappiamo che tutto ha uno scopo.