Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
INTERVISTA/GENNARO ACQUAVIVA

Psi: la sinistra che aveva ragione, ma perse

Turati aveva avvertito i primi comunisti, appena usciti dal Psi, che sarebbero stati delusi dall'Urss. Era vero, ma i fatti gli diedero ragione solo 70 anni dopo. Lo stesso avvenne con Bettino Craxi, ma fu lui lo sconfitto di Tangentopoli. Gennaro Acquaviva, già capo della segreteria di Craxi, ripercorre questo pezzo importante di storia italiana

- ADDIO MILANO BELLA di R. Cammilleri

Politica 05_02_2021
Bettino Craxi

Talleyrand diceva che non basta avere ragione, occorre avere qualcuno che te la dia. Cent'anni fa a Livorno Turati aveva ragione ma dovette aspettare settant'anni prima che gli eredi di Bordiga gliela dessero. Il centenario dalla nascita del Partito Comunista d'Italia è appena trascorso tra prevedibili stravolgimenti, smemoratezze ed autoassoluzioni. La scissione di Livorno del 21 gennaio 1921 non fu, come si sarebbe indotti a credere dalla maggior parte delle commemorazioni di questi giorni, l'anno zero della sinistra italiana: il Partito Socialista Italiano, infatti, esisteva già dal 1892 fondato da quel Filippo Turati che ai delegati comunisti in uscita dal teatro Goldoni profetizzò che sarebbero rimasti delusi dall'Unione Sovietica.

Dovettero passare molti anni prima che le ragioni del leader riformista, bollato come socialtraditore dai comunisti ma anche messo in minoranza e poi espulso dai massimalisti del suo stesso partito, venissero riconosciute senza titubanze da un segretario socialista orgogliosamente anticomunista. Davanti alle macerie del Muro di Berlino si realizzò la profezia di Turati, quel ritorno degli scissionisti di Livorno nel campo dei "socialtraditori" che lasciava immaginare il trionfo di Bettino Craxi e la nascita di una sinistra a trazione socialista finalmente legittimata a governare da sola. Come sappiamo, non andò così. Un secolo dopo il Congresso della scissione abbiamo ripercorso la storia dei rapporti tra comunisti e socialisti italiani con Gennaro Acquaviva, presidente della Fondazione Socialismo e capo della segreteria di Bettino Craxi prima a via del Corso e poi a palazzo Chigi. 

Presidente, possiamo dire che il risultato più immediato della scissione di Livorno fu quello di indebolire il socialismo italiano nel momento in cui il fascismo cominciava a colpire duramente le organizzazioni operaie?

Su questo non c'è assolutamente alcun dubbio, è un dato storico. La scissione di Livorno mostrò a Mussolini la fragilità dell'oppositore e gli facilitò lo slancio ad andare avanti sulla linea dura dopo che anche il movimento popolare era già stato destabilizzato. Il Psi dell'epoca era un partito molto forte elettoralmente, ma anche molto diviso al suo interno e la scissione favorì ulteriormente il fascismo in espansione. 

Negli stessi giorni della Marcia su Roma la dirigenza massimalista era a Mosca a trattare la fusione tra socialisti e comunisti italiani. Una fusione che non si concretizzò soprattutto grazie all'opposizione di Pietro Nenni, all'epoca direttore dell'Avanti, che resistette alle minacce e vinse il congresso nel 1923. Possiamo dire che fu la scelta più importante della storia della sinistra italiana al pari della scissione del '21?

Nenni salvò il partito dalla disgregazione. Lui era una persona che credeva nella libertà e a cui non andava a genio il sovietismo. Anche se poi, purtroppo per il socialismo italiano, fece la scelta del frontismo in vista delle elezioni del 18 aprile '48. L'errore storico di Nenni fu proprio quello: l'illudersi che con un partito oggettivamente minoritario potesse diventare il leader della sinistra in grado di sconfiggere De Gasperi con l'appoggio dell'Urss.

Perché un autonomista come Nenni sposò la linea frontista che determinò la subalternità del Psi al Pci?

Più che subalternità, il frontismo sconfisse l'anima riformatrice del socialismo italiano e cioè del socialismo e del laburismo presente sin dall'Ottocento in Europa. Fu quella speranza a venire meno. Alcuni dei miei compagni dicevano che Nenni fosse innamorato delle piazze. Certo, le piazze dei comizi per la campagna elettorale del '48 erano strapiene e Nenni sembrava l'uomo della provvidenza del tempo ma i voti non c'erano. Meno male che vinsero De Gasperi, il Papa e l'America altrimenti avremmo fatto la fine della Bulgaria! Nenni cominciò a capire l'errore dopo il '48 e dal '53 in poi non ne poté più di questo legame coi sovietici e col Pci.

La prevalenza del massimalismo nel PSI con la fallimentare linea degli equilibri più avanzati finì con l'approdo di Craxi alla segreteria. Fu il leader più odiato dai comunisti perché ne sfidò l'egemonia a sinistra non solo sul piano politico ma anche su quello culturale? 

Anche Nenni ci aveva provato nella tarda età. Ma Craxi aveva una cultura più moderna di questi socialisti massimalisti o riformatori. Lui riuscì, anche grazie al sostegno di una generazione di intellettuali cresciuti negli anni '60 con Antonio Giolitti, a dare legittimità e forza nel partito alle idee moderne del riformismo liberale ed europeo, finendo per renderle maggioritarie. Lui era un anticomunista naturale, avendo scoperto nei suoi viaggi giovanili in Europa orientale i danni provocati dal comunismo alla libertà, al pluralismo delle idee e al socialismo delle origini. Ma diventò un pericolo per i comunisti italiani perché affermò culturalmente un liberalismo socialista moderno, all'avanguardia, programmatore, non statalista che fu l'antitesi del berlinguerismo del tempo caratterizzato dal tema dell'austerità.

La sua sfida non fu solo politica, ma anche culturale...

La sfida di Craxi al Pci partì dalla cultura, dalla libertà, dal socialismo liberale anche ottocentesco che voleva un progresso generalizzato ma non la lotta di classe. Un socialismo soprattutto riformatore che gli fece riabilitare Turati. Craxi era politicamente un saragattiano e non un nenniano, sebbene Nenni sia stato il suo grande mentore. Ma fu la scelta anti-totalitaristica di Saragat del '47, diretta a realizzare una società di liberi in cui il cambiamento graduale nell'organizzazione sociale del tempo divenisse reale, ad ispirare la sua metodologia politica. 

Uno dei punti di maggiore frattura tra PSI e PCI si ebbe in occasione del rapimento di Moro. Perché Craxi, così netto nella condanna di quelli che per non pochi erano soltanto “compagni che sbagliano”, mise in secondo piano il problema di una legittimazione politica delle Br e sposò contro tutti la linea della difesa del diritto costituzionale alla vita?

Quell'iniziativa autonoma, che gli proiettò l'immagine di personaggio politico autorevole e coraggioso, purtroppo non diede esiti però. Ricordo ancora quando Craxi mi mostrò in lacrime la lettera che Moro gli aveva indirizzato dalla prigionia. Il dirigente della polizia mandato dalla procura per sequestrarla, quando raccolse la lettera dalle mie mani, mi disse francamente: "ma che stiamo a perdere tempo?". Non era malvagio, ma evidentemente aveva capito che ormai era finita e che il tentativo di Craxi non sarebbe servito. Da come sembra di capire dopo anni di indagini e commissioni parlamentari, alla fine Moro venne ammazzato perché doveva morire per forza, condannato da quello che aveva scritto in prigionia e dal ruolo di pontiere che svolse nella politica italiana: voleva far diventare il Pci del tempo un partito riformista che poteva andare al governo in un Paese alleato dagli americani. E' un vulnus troppo forte nei confronti dei partiti social-comunisti dell'Europa orientale che avrebbero potuto pensare di fare lo stesso in patria.

Negli anni della segreteria craxiana più il Pci si trovò in mezzo al guado tra Est ed Ovest, più esasperò la polemica antisocialista evocando la questione morale a difesa di una presunta diversità comunista. Fu il segnale più evidente di un partito messo in difficoltà dalla modernità di Craxi?

La questione morale era una toppa per non parlar d'altro, così come l'austerità. Nacquero da una predica, da un ragionamento non politico. In Italia l'austerità era oggettivamente antistorica, basta prendere i rapporti del Censis di quegli anni per avere la dimostrazione di come il Paese si stesse arricchendo: il ceto medio vero e proprio, infatti, nacque negli anni '70. Alfredo Reichlin raccontò che nel 1983 Craxi e Berlinguer s'incontrarono a Frattocchie per concordare un minimo di programma comune da usare in un'eventuale trattativa con la Dc ma il tavolo saltò proprio sul tema dell'austerità. Dopo ore di discussioni, durante una pausa, Craxi prese sottobraccio Reichlin e gli chiese di convincere Berlinguer a venire con lui a Milano per vedere la vita reale fatta di gente che si divertiva e spendeva soldi. Il Pci doveva predicare austerità perché in quel modo puntava ad accreditarsi con la Dc come l'unica forza in grado di aiutarla a governare, l'unica a poter rappresentare i poveri. Nella loro logica l'austerità serviva perché c'era ingiustizia ed i comunisti italiani ci tenevano a presentarsi come rappresentanti della medicina contro l'ingiustizia.  

Quando cominciò a crollare l'impero sovietico e gli eredi di Bordiga si accorsero che - come ebbe a dire l'allora ministro degli Esteri De Michelis su cui ha recentemente scritto un libro (Il riformismo di Gianni De Michelis, Marsilio) -  "il comunismo non era più merce spendibile politicamente", Craxi lanciò la parola d'ordine dell'Unità socialista pur temendo il settarismo dei dirigenti del PCI. E' stato il più grave errore della sua carriera politica?

Craxi cambiò addirittura il simbolo del partito per inserire lo slogan "Unità socialista" dopo aver saputo che Scalfari aveva convinto Occhetto a cambiare il nome e a chiamarsi "democratici". Il suo fu uno sberleffo verso i post-comunisti, un modo per fargli capire che se veramente volevano entrare nell'Internazionale socialista, non avrebbero potuto fare a meno di lui che continuava ad essergli indigeribile. Fu uno sberleffo che si ritorse contro Craxi ma non si può dire che abbiano vinto gli eredi del Pci perché il disastro della rottura del sistema dei partiti ha creato le condizioni dell'attuale impotenza italiana. Quelli tra il 1987 ed il 1992 furono anni di decadimento e quindi anche di cattiva gestione e di inquinamento morale della politica. Tangentopoli è in qualche modo un prodotto di questa decadenza, è la miccia che innesca un materiale infiammabile già presente. Sicuramente c'era del marcio ma poteva essere curato attraverso lo schema dell'alternanza. La grande occasione per creare le condizioni dell'alternanza ci fu nelle elezioni del 1987 ma il Psi non raccolse quel consenso dirompente che ci saremmo attesi.