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LA CRISI POLITICA

Presto, alle urne. Ma con giudizio

Il destino di Berlusconi è segnato. Ma di fronte a confusione e oscure manovre la strada del voto anticipato rispetta almeno la volontà popolare.

Editoriali 09_11_2011
berlusconi Con il voto di ieri in Parlamento sulla legge di rendiconto finanziario, la maggioranza parlamentare si è ufficialmente dissolta. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, prendendo atto della situazione, ha perciò annunciato le dimissioni ma tenterà prima di far approvare dal Parlamento la legge di stabilità - secondo i criteri richiesti dalla Commissione Europea - facendo appello alla responsabilità dell'opposizione. Sui possibili sbocchi della crisi politica e i criteri con cui affrontarla, abbiamo già ieri pubblicato un editoriale, che riproponiamo.


Ormai si può ben dire che sia questione di giorni se non di ore. L’attuale governo Berlusconi, dopo lenta e dolorosa agonia, si sta spegnendo. Malgrado la tenace volontà di resistenza del presidente del Consiglio, quello che appariva chiaro già da molte settimane si sta verificando. A Berlusconi il demerito di non aver provveduto in tempo a trovare una via d’uscita politica, cercando almeno di salvare la maggioranza. Ha preferito invece un braccio di ferro che – paralizzando l’azione di governo - ha contribuito ad alimentare gli attacchi finanziari contro il nostro paese, che ci hanno portato in questi giorni a una sorta di commissariamento da parte di UE e Fondo Monetario Internazionale.

Ma il problema dell’Italia non è – e non è mai stato – Berlusconi, e c’è poco da essere soddisfatti per la sua uscita di scena. Perché quelli che hanno raggiunto lo scopo della sua fine politica, si sono dimostrati – al di là dei partiti, delle procure e delle ideologie che rappresentano – ben peggiori, non esitando a gettare più fango possibile sull’Italia pur di far fuori l’odiato nemico. Una classe politica – salvo poche eccezioni - inetta e incapace di vedere oltre il proprio interesse immediato, guidata dai peggiori avanzi della Prima Repubblica. Il massimo che hanno saputo proporre in questi mesi è un’ammucchiata di governo che, più che un modo per gestire la crisi, suona come il tentativo di spartirsi quel che resta, infischiandosene della volontà espressa dal popolo tre anni fa e del bene comune.

E l’ammucchiata, tecnicamente definita governo di larghe intese, è ancora una proposta sul tavolo, rilanciata negli ultimi giorni con forza dal Terzo Polo. Lo diciamo ancora una volta: non è una proposta seria; anzi è inquietante, perché non nasce come risposta alla crisi, ma aleggia da molto tempo, ben prima che la paralisi del governo fosse all’orizzonte, tanto da far sospettare che sia stata almeno uno dei motivi della crisi. Una proposta spinta ora da uno ora dall’altro, come se ci fosse qualche suggeritore esterno, fuori scena, interessato a mettere alla guida dell’Italia qualcuno più malleabile, più omologato a poteri sovranazionali non meglio definiti.

In queste circostanze, se non si può fare altro, almeno si salvi il valore dell’espressione popolare - ammesso che abbia ancora un senso - andando subito alle urne e rimettendo agli italiani la decisione su chi dovrà governare. Certo, dato il panorama politico attuale – che pure rispecchia in gran parte quello che è la nostra società – non ci facciamo grandi illusioni, e comunque la nostra speranza non si fonda sulla politica. Alla politica chiediamo soltanto di non soffocare quella parte di Italia che, malgrado tutto, non perde tempo in sterili indignazioni ma è impegnata a costruire: nell’economia, nelle opere di solidarietà, nel sostegno alle famiglie e alla vita nascente, nell’educazione.

I nostri criteri di giudizio non cambiano. L’attuale crisi è l’ennesima dimostrazione che non si dà un’azione per il bene comune se non si fonda su quei valori che vengono prima di ogni programma economico e politico: vita, famiglia, educazione sono diritti connaturati all’uomo che vanno anzitutto riconosciuti, rispettati e quindi promossi e garantiti.