Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA STRAGE

Prato, una tragedia multiculturale

Abbiamo tollerato la nascita e la crescita di un'intera economia cinese parallela fondata sul lavoro di schiavi. Sindacati e autorità hanno fallito nel far rispettare le norme sulla sicurezza e sul lavoro nel cuore della Toscana.

Cronaca 04_12_2013
Il rogo di Prato

Per due giorni i quotidiani e i blog italiani si sono scatenati nell’interpretare la tragedia di Prato. È andato a fuoco un capannone industriale di Ye-Life Teresa Moda, azienda di produzione a basso costo e pronta consegna. Non era solo una fabbrica, ma anche un dormitorio. Gli operai, ammassati in loculi di un soppalco di cartongesso sono morti in massa: la strage ha fatto 7 morti e due feriti gravi. Una delle vittime ha cercato di fuggire da una finestra, ma c’erano le sbarre a fermarlo, per impedire la fuga di lavoratori sottopagati e sfruttati più che l’ingresso di eventuali ladri.

Non citiamo appositamente la nazionalità e l’origine degli operai, né quella di chi gestisce l’azienda, perché non è rilevante nella spiegazione dei fatti. Questo è un omicidio plurimo sul posto di lavoro, colposo se vogliamo essere generosi, volontario, se includiamo tutte le (molte) norme sulla sicurezza che sono state violate, a partire dall’inesistenza di uscite di sicurezza fino al materiale con cui era costruito quello stabilimento-dormitorio. Se la magistratura ha ritenuto omicidio volontario la morte degli operai della Thyssen Krupp a Torino (proprio 7 morti nel 2007) e ha condannato a 16 anni di carcere l’amministratore delegato Harald Espenhahn, cosa dovrebbe fare in questo caso? Se poi andassimo ad indagare sulle condizioni di lavoro di quegli operai, scopriremmo quante ore (ben oltre le 8) lavoravano e quante poche pause (ben sotto la mezzora) potevano concedersi. Roba da negrieri, a Prato, nella Toscana dominata dal Pd e dai sindacati.

Eppure a Prato, non si parla di crimine contro i lavoratori, bensì di “questione cinese”. Non solo i commentatori, ma anche le stesse autorità, danno più importanza alla nazionalità di vittime e carnefici che non al crimine stesso. E la nazionalità va ad influire sia sulle cause che sugli effetti di questo crimine.

Prima di tutto, come è stato possibile non prevenirlo? La “questione cinese” di Prato non è affatto una novità. Esistono inchieste, servizi, interrogazioni, indagini, iniziative politiche. Eppure la tragedia si è consumata proprio in una delle tante aziende in cui i lavoratori, la maggior parte dei quali sono immigrati irregolari, sono tenuti e trattati da schiavi. «L'80% dei controlli che vengono effettuati in queste aziende - conferma il sindaco di Prato, Roberto Cenni al quotidiano L’Unità - comportano il sequestro del fondo e dei macchinari». Ma: «Per dissequestrare i macchinari basta pagare una multa. Basta quindi ritrovare un’altra sistemazione per ricominciare a lavorare nelle stesse condizioni. È intollerabile per Prato e per tutto il Paese che situazioni del genere continuino ad evolversi e mai in senso positivo».

Allora, il problema è quello di una legge inadeguata e controlli insufficienti? Secondo la prefettura di Prato, i controlli sono oltre 300 all’anno, condotti sia dalla Polizia Municipale che dalla squadra Interforze di Prato. Eppure i pratesi lamentano una carenza totale di controllo del territorio, specie per quanto riguarda le aziende cinesi. Massimo Nuti ha chiuso la sua azienda nel 2002: «Mi hanno fatto chiudere. Per un'azienda in regola non è possibile sopravvivere. Loro fanno una concorrenza scorretta». «La mia azienda ha chiuso nel 2008, era un'impresa regolare. Ma non ce la faceva più, la concorrenza cominciava a essere spietata. Il titolare ha mandato a casa 50 dipendenti, 50 famiglie sulla strada», dice un altro imprenditore, Alessandro Mati, che denuncia: «Ecco come vivono i lavoratori cinesi, quattordici ore di lavoro al giorno, dormono e mangiano in loculi, senza igiene, senza sistemi di sicurezza, sottopagati. Come può un'azienda in regola competere in queste condizioni?». Le autorità non negano che vi sia un problema di fondo nel controllo: «La maggior parte delle aziende sono organizzate così: è il far west – spiega lo stesso procuratore della Repubblica Piero Tony - I controlli sulla sicurezza e su ciò che è collegabile al lavoro, nonostante l'impegno dei tutte le amministrazioni e delle forze dell'ordine, sono insufficienti. Siamo sottodimensionati: noi come struttura burocratica, ha spiegato il procuratore, siamo tarati su una città che non esiste più, una città di 30 anni fa».

C’è però qualcosa che non torna. Come mai gli italiani sono controllati e devono chiudere, ma i cinesi no? Perché sono troppi per controllarli tutti? Sono sempre stati “troppi”, anche quando l’immigrazione è incominciata? Ha sicuramente ragione il procuratore nel definire “sottodimensionate” le sue forze rispetto al compito che gli è stato assegnato adesso, ma lo erano anche quando i cinesi erano quattro gatti? Si è evidentemente creato un problema a monte, cioè è stata tollerata la nascita e la crescita di una società a parte, con regole proprie.

Ma, più ancora che le autorità, lascia ancor più perplesso il comportamento defilato dei sindacati, in una regione dove solitamente sono fortissimi. Proprio nella Toscana delle Coop, dove non si può neppure vedere l’ombra di una Esselunga, c’è una piccola Cina che segue regole schiaviste e nessuna Camusso profferisce parola. Dalla triade sindacale giungono ora parole di lutto e cordoglio. Ma prima che sette operai finissero in fiamme, quante manifestazioni sindacali sono state organizzate in loro difesa? Quanti scioperi? Quanti picchetti? Quante campagne stampa?

«È amaro constatare di non essere riusciti a proteggere queste vite da una morte cosi orribile. Dobbiamo prenderci l'impegno di collaborare con tutte le nostre forze per cambiare e garantire che a Prato i luoghi dove si lavora non siano quelli dove si dorme e si vive, di educare le persone ai loro diritti, creare alternative concrete, perché nessuno più consideri l'autosfruttamento come unica chance per riscattarsi da condizioni di vita misere». A scrivere queste sentite parole è la comunità cinese di Prato, che organizza una fiaccolata per il lutto. Non i sindacati, che evidentemente hanno fallito nel loro compito di proteggere quelle vite (vite umane, di operai, prima ancora che cinesi) da una morte così orribile.

Abbiamo dunque alcuni elementi in più per comprendere la tragedia di Prato. C’è una nazione schiavista nata nel cuore dell’Italia, che è cresciuta senza essere vista dalle autorità e senza essere contrastata dai sindacati. Questa è la causa della strage di Prato. Perché non sia stata vista la nascita e la crescita di questa piccola nazione di schiavi dentro l’Italia non è scritto in alcuna decisione ufficiale, ma è facilmente intuibile: “sono cinesi, si regolino da soli”. D’altra parte, l’unica volta che autorità italiane sono intervenute contro le irregolarità con la mano pesante, a Milano, in Via Paolo Sarpi, nell’aprile del 2007, la comunità cinese ha risposto ribellandosi e picchiando i vigili. Il console della Repubblica Popolare, invece di condannare la violenza dei connazionali, è prontamente intervenuto al loro fianco. Da allora, almeno, una regola non scritta, non detta, ma comunque applicata nei fatti, vuole che i cinesi abbiano il loro piccolo sistema a parte, con proprie regole.

D’altronde siamo in Italia e non solo i cinesi sono vittime di questa logica. Se un bambino rom è sfruttato per chiedere l’elemosina, raramente la polizia interviene per arrestare i genitori. Eppure lo sfruttamento e il maltrattamento dei minori sono reati gravi. Se un uomo si fa il suo piccolo harem con più di una moglie, raramente i poliziotti lo scoprono. Secondo i dati del Viminale la poligamia in Italia non esiste, ma a partire dal famoso caso del marocchino Mohammed Bikri (emigrato in Sardegna con le sue due mogli), la poligamia c’è eccome e un’inchiesta a Torino, svolta nei primi anni 2000, rivelò anche numerosi harem negli appartamenti: donne segregate in casa. Eppure la poligamia non è permessa dalla legge italiana. Insomma, abbiamo un problema: si chiama multiculturalismo. Il multiculturalismo è quel sistema di pensiero in cui non esistono le persone, ma le culture. Non si tutela il diritto della persona, ma la cultura di cui fa parte.

Il multiculturalismo incoraggia la diversità, dunque accetta e addirittura promuove leggi diverse per differenti comunità. In Gran Bretagna è già legge: il diritto familiare, all’interno della comunità musulmana, è amministrato da corti islamiche. In Germania non è legge, ma sentenze recenti permettono di capire come sia già accettato a livello giuridico: la ragazza che vuol nuotare lo può fare solo in “burqini”, come prescritto dalla legge coranica, anche se è in una scuola pubblica tedesca. In Italia non siamo ancora arrivati a questi livelli di istituzionalizzazione del sistema multiculturale, ma la prassi ci si sta adattando: ogni comunità fa da sé. Ma le vittime principali di questa filosofia politica sono gli operai cinesi schiavizzati, le donne musulmane segregate, i bambini rom maltrattati e sfruttati. Non tutti vogliono seguire le peggiori regole delle loro rispettive comunità. Forse solo piccole minoranze identitarie ci tengono (e chi approfitta di quelle norme per trarne vantaggi), non è corretto che la legge italiana e chi la deve far rispettare li abbandoni.