Più aiuti all’Africa e più corruzione. Il caso Ciad
Nel 2015 gli aiuti allo sviluppo sono cresciuti del 6,9% per un totale di 131,6 miliardi di dollari. Una quota consistente è andata come sempre all’Africa. Intanto, 150 miliardi di dollari hanno lasciato l’Africa alla volta di paradisi fiscali. E c’è chi ancora raccomanda la cancellazione del debito dei Paesi africani. Il caso del Ciad.
Dicono che abbiamo imposto agli africani il sistema democratico parlamentare sul modello occidentale, del tutto estraneo alla tradizione delle “democrazie del baobab”, i consigli degli anziani, e per questo difficile da realizzare. È vero. Le “democrazie del baobab” sono sistemi tribali autoritari, gerontocratici e patriarcali. Siccome però antropologi, missionari e cooperanti da mezzo secolo li descrivono come modelli esemplari di uguaglianza e giustizia sociale, è stato fatto assai poco per sradicarli, con il risultato che quei sistemi si sono trasferiti nelle moderne istituzioni politiche rendendole meri simulacri di democrazia, di cui gli africani hanno ben presto imparato a servirsi.
Nel 2015 tre capi di Stato hanno proposto e ottenuto, come altri in precedenza, l’abrogazione degli articoli costituzionali che, limitando il numero di mandati presidenziali che un cittadino può svolgere, impedivano loro di ricandidarsi: Paul Kagame, presidente del Rwanda, Denis Sassou-Nguesso, nella Repubblica del Congo, Pierre Nkurunziza, in Burundi. Lo hanno fatto, come gli altri, ricorrendo ad assemblee costituenti, referendum popolari, voto parlamentare, tutti strumenti previsti dalla costituzione dei loro Paesi. Non tutti i capi di Stato ci riescono e qualcuno non ci prova neanche. Per altri, ad esempio il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, il problema non si pone: non hanno mai accettato l’istituzione di limiti ai mandati presidenziali.
Peraltro si va alle urne in quasi tutti i paesi africani, ormai, e quasi tutti accettano che Unione Europea, Stati Uniti e altri stati mandino degli osservatori per verificare se le operazioni di voto si svolgono regolarmente. Quasi sempre gli osservatori dichiarano, seppure con delle riserve, che così è stato, offrendo con ciò ai candidati eletti la legittimazione internazionale. Eppure si sa dei brogli, delle intimidazioni, delle alleanze e dei voti comprati, degli avversari politici uccisi e incarcerati, della repressione brutale delle proteste popolari: il tutto attingendo a piene mani alle casse statali, alle risorse nazionali, ai fondi miliardari forniti dalla cooperazione internazionale allo sviluppo, amministrati come patrimoni personali, lasciando che intanto il debito estero cresca, che infrastrutture e servizi restino carenti.
Quel che avanza, dalle spese in sicurezza personale, clientele, lussi, vistose ostentazioni di status symbol pubblici e privati, finisce all’estero, investito in altri beni di lusso, proprietà immobiliari, paradisi fiscali. Perché il problema non è solo per quanto tempo un leader resta al potere, ma anche come governa nel frattempo. Il caso del Ciad è emblematico. Il 10 aprile il Paese ha votato per eleggere il presidente della Repubblica. L’esito non è stato ancora reso noto, ma il favorito è l’attuale capo di stato Idriss Déby Itno, al potere dal 1990 grazie a un colpo di Stato e poi per quattro volte eletto, a partire dal 1996. Déby concorre quindi per un quinto mandato. Nel 2005, per potersi candidare per la terza volta, ha fatto sopprimere l’articolo costituzionale che limitava a due i mandati presidenziali che un cittadino poteva ricoprire.
Dal 2003 il Ciad produce ed esporta petrolio. Nel 1999 la Banca Mondiale ha finanziato la costruzione di un oleodotto lungo mille chilometri che porta il greggio del Ciad, privo di sbocco al mare, fino all’Oceano Atlantico. In cambio Déby si era impegnato a depositare su un conto bancario britannico il 10% dei proventi petroliferi istituendo un “fondo per le generazioni future” e a investire un’altra consistente parte dei proventi in opere sociali, infrastrutture e lotta alla povertà. Ma poi nel 2005 ha cancellato il fondo e ha portato al 30%, stornandoli dai programmi di sviluppo e assistenza, gli introiti ricavati dalla vendita del petrolio destinati all’erario per potenziare il settore della sicurezza nazionale: in realtà, per garantire la propria sicurezza personale e la stabilità del proprio regime, all’epoca minacciate da movimenti antigovernativi armati. Déby nei 26 anni trascorsi al potere si è inoltre dotato di un ingente patrimonio personale: le sue sfarzose nozze nel 2005 con la giovane e bellissima Hinda sono state un evento memorabile.
Il Ciad era stato ammesso al programma di remissione del debito estero dei Paesi poveri, la Heavely Indebted Poor Countries Initiative (inaugurata nel 1996 dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale), proprio in considerazione di quei fondi destinati alle future generazioni e alla lotta alla povertà. Tuttora il Paese è uno dei più poveri del mondo: nell’indice di sviluppo umano 2015 è 185° su 188 stati considerati; la speranza di vita alla nascita è 51 anni, il tasso di mortalità infantile è 147 su mille, quello di mortalità materna è 980 ogni 100 mila nascite.
Tornando alla situazione generale, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd), nel 2015 gli aiuti allo sviluppo sono cresciuti del 6,9% rispetto al 2014, raggiungendo la cifra totale di 131,6 miliardi di dollari (a cui l’Italia ha contribuito con 3,84 miliardi di dollari, pari allo 0,21% del Pil). Una quota consistente degli aiuti è andata come sempre all’Africa. Nel frattempo, sempre secondo l’Oecd, 150 miliardi di dollari hanno lasciato illegalmente l’Africa alla volta di paradisi fiscali. Tuttavia c’è ancora chi raccomanda la cancellazione del debito estero dei Paesi africani.