Pieces of a woman, spaccato della modernità anti-vita
Viene celebrato come un “capolavoro”, malgrado le solite nudità e scene spinte che nulla aggiungono alla trama. Tutta la prima parte del film è sul parto, che va male. Quindi lo choc della protagonista, seguito da eccessi. Fine. Se la pellicola offre un motivo di dibattito è sulla vita moderna che è nemica della vita. Ecco perché…
Dovunque leggi è tutta una sviolinata al «capolavoro» in odore - qualcuno auspica - di Oscar al miglior film straniero. Intanto, come antipasto, la protagonista ha incassato la Coppa Volpi quale migliore attrice all’ultimo Festival di Venezia. Il film in questione, Pieces of a woman, è dell’ungherese Kornél Mundruczó, al suo primo lavoro americano. Devo aver letto da qualche parte che c’è uno spunto autobiografico, ma non ho più rintracciato il riferimento. Devo dire che non me ne sarei occupato se non fossi stato richiesto da un lettore della Nuova Bussola che insegna religione nelle scuole.
Be’, per cominciare direi subito che certe storie si possono raccontare anche senza insistere sulle nudità dei protagonisti, lui e lei: certe scene nei film contemporanei obbligano i recitanti a performances imbarazzanti a cui non si sottraggono per amor di lustro&lucro. Come ho già avuto modo di dire in altri articoli, le scene spinte sono, per giunta, assolutamente pleonastiche: cioè, senza di esse non cambia assolutamente niente nella trama. Detto questo (e andava detto, in una recensione kattolica), passiamo al titolo: Pieces of a woman vuol dire «pezzi di una donna» ma anche, forse, «una donna a pezzi». In inglese. In francese pièces sta per «camere» o «opere teatrali», e se si vuol giocare coll’ambiguità va bene anche questo.
La storia è un perfetto spaccato delle generazioni odierne: lei e lui convivono, lei ha sui trentacinque anni, decidono di volere un figlio e lo mettono in cantiere. Lui lavora nell’edilizia, non si capisce se come carpentiere o altro (c’è un ponte che resta simbolicamente a mezzo), lei è impiegata o funzionario (boh), ebrea di famiglia facoltosa. Non si sa se per motivi ecologici o new age, optano per il parto in casa.
Tutta la prima parte del film è il parto. L’ostetrica di fiducia, impegnata, manda la sostituta. Nasce una bambina che muore subito. E comincia la tragedia. Lo choc è tale che lei dà di fuori, litiga con tutti, si ubriaca, pomicia con un nero rimorchiato in discoteca. Sua madre, figlia di reduci della Shoà, punta ai soldi e alla vendetta, denuncia la sostituta ostetrica e affida la causa a una sua nipote (che, visto che c’è, va a letto con lui). La coppia scoppia e ognuno per la sua strada. Solo in tribunale lei ammette che è stata una fatalità e che l’ostetrica non ha colpe. Fine.
Be’, se c’è motivo di dibattito, qui, è sulla vita moderna nemica della vita. Anch’io sono un secondo-nato, perché il primo nacque morto, ma i miei genitori si affrettarono a rimpiazzarlo. Così come si faceva un tempo, e senza tragedie. In tempi ulteriormente anteriori, quando la mortalità infantile era alta, partorire qualche cadaverino era quasi la norma, e subito all’opera per altri pargoli. Ma, a quel tempo, altra differenza: il primo parto avveniva quando lei aveva sui diciott’anni. Oggi, com’è noto, prima bisogna finire gli studi, poi comprarsi la casa e far carriera, poi, infine, quando ti senti «realizzato», vuoi completare il quadretto con un figlio (max due). E lo carichi, questo figlio, di tali aspettative che ciò che un tempo era un evento triste tra gli altri adesso è una tragedia greca foriera di disastri a ripetizione. E quante volte, prima, sei ricorso alla contraccezione perché «non era ancora il momento»…
Stiamo raccogliendo, ahimè, quel che abbiamo indefessamente seminato fin dai “formidabili” anni Sessanta e, come ben si vede nel film, poi non bastano tribunali e psichiatri a rimediare. Il lettore di cui dicevo fa presente che la Commissione Valutazione della Cei ha definito il film «complesso, problematico, adatto per dibattiti». Ma non vedo come un critico kattolico possa dire, al cineforum, quel che qui ho detto senza essere subissato dal conduttore e, cosa più triste, dalla stessa platea. Che magari è più interessata alla metafora del ponte incompleto e alla fissazione della protagonista per i semi di mela.