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JIHAD

Persecuzioni dei cristiani, timida denuncia dall'islam

L'editto con cui l'Isis, in Iraq, intima ai cristiani di convertirsi o perire, è stato denunciato da organizzazioni islamiche a livello mondiale. La tolleranza è un obbligo (sempre che non si sia in guerra con i cristiani). Ma le stesse organizzazioni hanno taciuto di fronte ai casi di persecuzione degli apostati.

Esteri 28_07_2014
N di Nazareno

Il patriarca libanese maronita Bechara Rai, a proposito dell'ultimatum lanciato la settimana scorsa dallo Stato islamico dell'Iraq e del Levante ai cristiani di Mosul, aveva osservato il silenzio da parte islamica e la mancanza di "voci di denuncia." Dal canto suo, il Patriarca dei caldei Louis Sako aveva ribadito, in una lettera aperta pubblicata il 21 luglio, che le richieste dell’ISIS sono “richieste che offendono i musulmani e la reputazione dell’islam, che sostiene la libertà per ognuno di avere la religione che preferisce e che proibisce la costrizione negli affari di fede, e sono in contraddizione con i 1.400 anni di storia e di vita del mondo islamico.”

Ebbene, le voci di denuncia sono arrivate, sia da parte di molti musulmani che sui social network hanno lanciato gli hashtags #anairaqi_anamasihi (“sono iracheno sono cristiano”), #kullunanasrani (“siamo tutti cristiani”), sia da parte di organizzazioni islamiche a livello mondiale. Se la protesta dal basso ha puntato sul diritto alla vita e alla dignità umana di tutti gli uomini, a prescindere dal proprio credo, in nome dell’appartenenza a una nazione, ma ancor di più in nome dell’appartenenza al genere umano, la denuncia dall’alto fa riferimenti ben precisi all’islam e al suo approccio all’altro, purtroppo contraddicendo in parte quanto affermato dal Patriarca iracheno.

Il primo comunicato giunge il 21 luglio da parte dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI) il cui segretario generale, il saudita Iyad ibn Amin Madani, ha condannato «le minacce e le pratiche terroristiche perpetrate dall’ISIS nei confronti dei cittadini cristiani pacifici a Mosul e a Ninive, azioni che li hanno spinti ad abbandonare le loro abitazioni provocando quindi una lacerazione nel tessuto sociale del popolo iracheno». Ha altresì aggiunto che «questa migrazione forzata è un crimine nei confronti del quale non si può tacere» e che «le azioni dell’ISIS non hanno alcun legame con l’islam e i suoi precetti che richiamano alla giustizia e al compiere il bene, all’equità, alla tolleranza e alla cooperazione, inoltre contraddicono i principi su cui si base l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica […]».

Il secondo comunicato viene emesso il 22 luglio dall’Unione Internazionale degli Studiosi Islamici (IUMS). Anche in questo caso la condanna è esplicita perché si tratta di «azioni che contravvengono la legge islamica, la coscienza islamica e danno un’immagine negativa dell’islam e dei musulmani, contraddicono i diritti dell’islam che garantisce a tutti gli uomini i principi della giustizia e del bene, il precetto della bontà e della tolleranza». A differenza del documento dell’OCI qui si offre l’evidenza coranica di quanto affermato con il versetto 8 della sura 60: «Dio non vi proibisce di essere buoni ed equi con chi non vi ha combattuto e non vi ha scacciato dalle vostre case, Dio ama gli equanimi». La citazione aiuta a comprendere il contesto giuridico: i cristiani iracheni non vanno combattuti perché non hanno combattuto, non hanno attaccato i musulmani. Qualora l’avessero fatto, nonostante siano Genti del Libro, allora tutto sarebbe stato lecito. Un ulteriore ausilio alla comprensione del testo elaborato dalla IUMS sono le parole del suo presidente, Yusuf Qaradawi, teologo di riferimento dei Fratelli musulmani: «Ciononostante, coloro che risiedono sotto l’egida dello Stato islamico hanno una condizione particolare. Sono coloro che vengono definiti dai musulmani “gente della dhimma”. Dhimma significa patto ed è una parola che sottintende che costoro hanno un patto di Allah, un patto del Suo Inviato, un patto della comunità dei musulmani che vivono sotto l’egida dell’islam in sicurezza e tranquillità». (Yusuf Qaradawi, al-halal wa-al-haram fi al-islam, al-Maktab al-islami, Beirut 1994, p. 306) Qaradawi prosegue affermando che costoro «per usare una terminologia moderna sono “cittadini” nello Stato islamico». Ne consegue che i cristiani sono dei “protetti” che non devono in alcun modo diventare nemici dell’islam o attaccare lo Stato islamico. Il comunicato della IUMS chiarisce altresì che «sull’esempio di questi precetti i musulmani hanno offerto un modello meraviglioso di coesistenza con i non musulmani nei periodi più difficili, fatto che ha invitato migliaia di persone ad abbracciare l’islam e a integrarsi nelle società islamiche e a convivere in un’unica nazione».

Entrambi i comunicati, così come affermato dal Patriarca Sako, tendono a dimostrare la magnanimità dell’islam nei confronti dei cristiani che si dimostra nella condanna della messa in fuga dei cristiani di Mosul. È lo stesso sentimento che aveva animato la lettera aperta “Una parola comune tra noi e voi” inviata il 13 ottobre 2007 da 138 sapienti musulmani a Papa Benedetto XVI, a un mese dal discorso di Ratisbona: «Come musulmani, noi diciamo ai cristiani che non siamo contro di loro e che l’Islam non è contro di loro – a meno che loro non intraprendano la guerra contro i Musulmani a causa della loro religione, li opprimano e li privino delle loro case, (in conformità con il versetto del Sacro Corano [Al-Mumtahinah, 60:8] citato sopra)». Ancora una volta si ribadisce il concetto, che di fatto è quello che sottende a tutta la teoria del jihad e all’idea di resistenza, che i cristiani non devono attaccare l’islam, altrimenti il confronto armato diventa non solo lecito, ma un dovere.

Comunicati simili erano stati emessi per condannare l’operato dei Boko Haram in Nigeria, ma purtroppo nessuna parola è stata spesa né per la libertà religiosa della sudanese Meriam, che fortunatamente è riuscita ad avere salva la vita, né per quella della pakistana Asia Bibi, ancora in carcere accusata di “blasfemia”. È facile apparire tolleranti nei confronti di organizzazioni marcatamente e ufficialmente terroristiche come l’ISIS e i Boko Haram, ma sarebbe doveroso, e dimostrerebbe una volta per tutte che l’islam è veramente sulla “retta via”, udire una condanna netta e chiara delle accuse di apostasia, una condanna decisa, senza se e senza ma, di chi vuole la morte di una cristiana che non ha mai apostatato. Per ottenere ciò dovrebbe essere abolito l’articolo 10 della dichiarazione del Cairo dei diritti dell’uomo nell’islam in cui si afferma che “l’islam è la religione naturale dell’uomo”. Non solo, ma l’attuale segretario dell’OCI dovrebbe fare un esame di coscienza su quanto accade ai cristiani, molti dei quali filippini, nel proprio paese, l’Arabia Saudita. Costoro non fuggono, come i cittadini di Mosul, perché non possono, perché hanno bisogno di lavorare per mantenere le proprie famiglie, ma non hanno diritto di indossare una croce, non hanno luoghi in cui pregare, se non le loro case.

Ebbene, l’OCI e la IUMS dovrebbero imparare dai cittadini iracheni di fede musulmana che recando in mano cartelli con la scritta “Sono iracheno sono cristiano” hanno manifestato domenica 20 luglio al termine della Messa, fuori dalla chiesa di San Giorgio a Baghdad. Questa è la vera protezione, quella delle persone che vedono nell’altro un simile a prescindere dalla appartenenza religiosa e dall’atteggiamento nei confronti di quest’ultima. Una protezione che non pone condizioni, che ha come unico scopo il rispetto e la tutela dell’essere umano.