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INFUOCATA DIREZIONE

Pd diviso sul segretario, strappo che sa di scissione

La revisione dell'Italicum a pochi giorni dal voto referendario è l'elemento di strappo maggiore tra il premier segretario e la minoranza agguerrita di Speranza, Bersani e D'Alema. Ma potrebbe sfociare in scissione se non si arrivasse a una mediazione, attualmente rappresentata dall'uomo finora più vicino al Colle: Dario Franceschini. 

Politica 11_10_2016
Matteo Renzi

E’ possibile, a cinquantacinque giorni dal referendum costituzionale, cambiare l’Italicum? Esistono i tempi tecnici, considerata anche la priorità da accordare, nei lavori parlamentari, alla legge di stabilità e alle altre leggi in materia socioeconomica? E, soprattutto, esiste la volontà politica e sono possibili ampie convergenze per modificare la legge elettorale?

Ruota attorno a questo interrogativo l’incerto futuro dei rapporti tra renziani e minoranza dem. I lavori della direzione Pd di ieri hanno offerto ancora una volta la rappresentazione plastica della distanza siderale tra maggioranza e minoranza. Da una parte i renziani, dall’altra una serie di anime minoritarie ma sempre più agguerrite che, nel timore di essere spazzate via, provano a vendere cara la pelle e a sbarrare la strada alla definitiva “renzizzazione” del partito e del governo. In che modo? Votando “No” al referendum e ridimensionando, di conseguenza, il potere del premier-segretario. Non possono però farlo personalizzando la contesa, altrimenti cadrebbero nello stesso errore fatto dal Presidente del Consiglio, quello di legare le sorti del governo e della legislatura e financo la prosecuzione della sua esperienza politica all’esito del voto del 4 dicembre.

Su ballottaggio, premio alla coalizione ed elezione dei deputati Renzi ha proposto una mediazione, da attuare dopo il voto popolare sulla riforma Boschi, attraverso una delegazione allargata alla minoranza del partito e incaricata di dialogare con tutti i partiti, anche il Movimento Cinque Stelle, al fine di arrivare a modifiche condivise dell’Italicum. Il suo è un tentativo disperato di ricomporre le fratture interne, pur mantenendo fermi alcuni principi, riassunti nella frase pronunciata ieri in direzione: «Per tenere unito il partito, non possiamo tenere fermo il Paese».

Ma Bersani, Cuperlo, Speranza e ancor più Massimo D’Alema preferiscono, almeno per ora, tirare dritto e non fidarsi della proposta del premier-segretario, che ha tutta l’aria di essere una polpetta avvelenata. Se, infatti, Renzi ottenesse la vittoria del referendum grazie ai voti della minoranza, dimostrerebbe poi lealtà nel cambiare la legge elettorale? Non è affatto detto. Anzi, potrebbe essere tentato da due prospettive: quella di far saltare il tavolo e di andare alle urne anticipate, usando l’Italicum per far fuori tutti gli oppositori interni, sia pure col rischio di perdere il ballottaggio contro i Cinque Stelle; quella di mettere gli uni contro gli altri, impedendo quella riforma dell’Italicum alla quale si dice, a parole, disponibile.

In altre parole, il suo obiettivo potrebbe essere quello di andare al Quirinale, dopo aver incassato la vittoria dei “Si” al referendum e dire a Mattarella in modo più o meno esplicito: «Visto che qui il clima è di tutti contro tutti e che non si riesce a modificare la legge elettorale e a portare avanti l’azione di governo, io mi dimetto, così sei costretto a sciogliere le Camere». 

Il retropensiero della minoranza dem è di tutt’altro segno: se Renzi perdesse il referendum si indebolirebbe non poco, è vero che rimarrebbe segretario del Pd e quindi gestirebbe comunque lui la fase della probabile crisi di governo, ma dopo una batosta simile sarebbe decisamente più malleabile sui cambiamenti all’Italicum, sulle candidature di esponenti della minoranza alle prossime politiche e sul doppio incarico di premier e di segretario, che a quel punto verrebbe messo seriamente in discussione.

 

L’impressione è che nelle prossime ore sarà proprio il Quirinale, sia pure in modo felpato, a scendere in campo e a tentare di avvicinare le anime del Pd. Non sarà semplice, anche perché c’è chi, come Dario Franceschini, da una parte difende Renzi e invoca l’unità interna, dall’altra forse sta giocando una sua partita personale, quella di accreditarsi come elemento di cerniera e di sintesi, magari nel ruolo di premier post-Renzi (in caso di vittoria dei “No”). E l’attuale Ministro dei beni culturali, si sa, è considerato assai vicino a Mattarella. Forse solo lui, se si acuissero ulteriormente i dissidi interni, potrebbe evitare la scissione dentro il Pd.