Parigi, la realtà demolisce il politicamente corretto
A ventiquattro ore dal bagno di sangue della notte del venerdì 13, Parigi vive il suo primo giorno di guerra. Come reagirà? L'opinione pubblica è sempre più consapevole del pericolo islamista. Ma la classe dirigente e soprattutto i professionisti dei media, anche qui in Italia, continuano a proporre i soliti cliché del pensiero politicamente corretto, intimidendo chi non è d'accordo.
Dopo il bagno di sangue della notte del venerdì 13, Parigi sta letteralmente vivendo il suo primo giorno di guerra. E le indagini, iniziando a identificare gli attentatori, stanno smontando tutti i cliché del politicamente corretto. Fra i terroristi, infatti, vi sarebbero anche un cittadino francese cresciuto nelle Banlieue e un profugo siriano sbarcato in Grecia.
Il giorno di guerra a Parigi, che per la prima volta dal 1944 è in stato d’assedio, è caratterizzato da metro ferme, scuole, università ed edifici municipali chiusi per tutto il sabato. Solo alcuni treni di lunga percorrenza sono ancora attivi. Un Tgv (treno ad alta velocità) deragliato a Strasburgo ieri pomeriggio ha provocato una breve ondata di panico nei social media: un nuovo attentato? Si trattava di un incidente, in realtà, era un treno in prova e i tester hanno esagerato con la velocità. I servizi di emergenza sono stati mobilitati come in tempo di guerra, tutte le ferie della polizia e dell’esercito cancellate, 1500 militari sono stati dislocati a Parigi e gli ospedali hanno richiamato tutto il personale possibile per far fronte all’ondata di feriti, circa 200, di una notte di terrore. L’emergenza assume anche la forma di piccoli ma importanti accorgimenti tecnologici, nell’era dei social network. Facebook ha salvato dalla follia molte famiglie delle potenziali vittime, attivando il servizio speciale “sto bene”, un semplice segnale da pubblicare sul proprio profilo per indicare la propria esistenza in vita. Le stazioni radio hanno invitato tutti i parigini a restare a casa, ma anche a fornire rifugio ai cittadini in pericolo colti per strada dall’inizio dell’attacco. A questo proposito, sia le autorità che i privati hanno lanciato anche la catena di messaggi su Twitter con l’hashtag #porteouverte, “porta aperta”.
Il presidente Hollande, che ha personalmente udito le esplosioni degli attentatori suicidi ed è stato fatto evacuare dallo Stadio di Francia nel corso della partita Francia-Germania, ha promesso una risposta dura allo Stato Islamico su “tutti i campi di battaglia in patria e all’estero”. Nel frattempo, per sicurezza, ha cancellato il suo viaggio in Turchia dove avrebbe dovuto prender parte al summit del G20. Alla fine del mese si terrà proprio a Parigi il summit sul clima Cop21. E dunque le forze di sicurezza e le autorità francesi hanno meno di due settimane di tempo per mettere la città in sicurezza da ulteriori attacchi.
Le indagini della polizia francese e belga non hanno ancora portato all’identificazione dei terroristi. Il procuratore generale francese François Molin dichiara che l’attacco sia stato condotto da tre commando terroristi fra loro coordinati. Uno dei jihadisti pareva esser stato arrestato, ma la notizia è stata smentita nel corso della giornata. Dopo una giornata di caccia all’uomo non risultano altri jihadisti ancora vivi e sul posto. Otto sono certamente morti: tre si sono fatti esplodere nell’area dello Stadio di Francia, tre nel teatro Bataclan e due sono stati uccisi dalle teste di cuoio. Tuttavia si segue la pista di due auto, guidate da giovani, sui luoghi degli attacchi. Una di queste è stata trovata: è immatricolata in Belgio. La polizia ha anche rintracciato tre scontrini appartenuti agli attentatori e da questi è risalita sempre a Bruxelles, al quartiere Molenbeek, uno dei più a rischio nella galassia jihadista europea. Il ministro della Giustizia belga Koen Geens ha dichiarato ieri che la polizia ha arrestato cinque sospetti nel quartiere di Bruxelles. Stando, invece, alle impronte digitali ricavate dai resti di uno degli attentatori suicidi, la polizia francese sarebbe risalita (secondo la Tv Europe 1) all’identità di un cittadino francese trentenne, già noto ai servizi sociali, cresciuto delle Banlieue parigine, i quartieri poveri, abitati soprattutto da immigrati musulmani, che ogni anno danno molto filo da torcere alla polizia francese. Questa mattina è poi giunta la conferma: si tratta di Omar Ismail Mostefai, della banlieue di Courcouronne, 29 anni, di origine algerina, noto alle forze dell'ordine per atti di microcriminalità, ma mai incarcerato; dal 2010 si sarebbe radicalizzato, secondo i servizi segreti francesi. Un passaporto siriano è invece stato rinvenuto vicino al corpo di un altro attentatore suicida, nell’area dello Stadio di Francia. Secondo il viceministro degli Interni greco Nikolaos Toskas: "Il passaporto ritrovato accanto ad uno dei kamikaze della strage di Parigi è stato identificato come appartenente ad un rifugiato siriano registrato a Lesbo il 3 ottobre". Un profugo era fra gli attentatori, dunque. Il quotidiano Le Parisien ipotizza anche la presenza di una donna fra gli attentatori. Ma siamo sempre nel regno delle ipotesi.
In ogni modo, sono già stati demoliti dalla realtà tutti i cliché del politicamente corretto, quelli secondo cui non vi è alcun legame fra l’islam e il terrorismo e quelli per cui gli immigrati islamici non costituiscono una minaccia, ma una risorsa. E’ anche probabile che nella stragrande maggioranza dei casi sia così. Ma non si può negare il pericolo, come invece si tende a fare. “Nelle ore successive agli attacchi dei terroristi suicidi jihadisti, dell’omicidio di massa a Parigi, i media europei parlavano di ‘flagello del terrorismo’ e ‘violenza degli estremisti’. Ma chi erano questi terroristi e questi generici estremisti che hanno massacrato innocenti parigini? Erano anti-abortisti, razzisti del Ku Klux Klan, membri del Tea Party, per caso? – si chiede ironicamente lo storico e opinionista militare Victor Davis Hanson – I professionisti della notizia gareggiano nel metterci in guardia, non dal pericolo di ulteriori attentati jihadisti o dalla natura dell’odio islamista che anima i fanatici, ma dalla ‘sovra-reazione’ occidentale all’orizzonte, da come i partiti identitari e di estrema destra possano colpevolizzare gli immigrati”.
“Quanto l’attentato di Parigi impatterà sull’opinione pubblica? – si chiede l’analista Daniel Pipes – e per quanto tempo ancora l’establishment europeo negherà la realtà? (…) Come suggeriscono queste stesse domande, la gente comune e la classe dirigente si sposteranno su posizioni opposte, la prima verso destra, la seconda ancora più a sinistra. Alla fine, questa divergenza ridurrà al minimo l’impatto di questi eventi (di Parigi, ndr) sulle decisioni politiche future”. Secondo Pipes, attentati di mega-terrorismo come quello di Parigi, oltre a tutta la catena di attacchi minori subiti dalla Francia e dall’Europa, hanno creato effettivamente una maggior presa di coscienza del pericolo islamico nell’opinione pubblica. “Questi eventi hanno reso gli occidentali molto più preoccupati nei confronti dell’islam e di tutto ciò che ne consegue, dalla costruzione di un minareto alle mutilazioni genitali femminili. In complesso, è già in corso un notevole slittamento verso la destra politica”. Al contrario, “Coloro che hanno il compito di interpretare il significato di questi attacchi (per elaborare una risposta, ndr) vivono in una bolla che non permette loro di accettare la realtà per quella che è. Per lo meno in pubblico (quel che poi dicono in privato è un altro discorso), si sentono obbligati ad affermare che l’islam non abbia alcun ruolo nella violenza terroristica, temendo che il solo riconoscere questa relazione possa causare ancora più problemi”. Non a caso, in Italia, l’unico titolo violentemente contestato dalla categoria giornalistica è stato quello del quotidiano Libero, l’unico che attaccava gli islamici con uno stile da tabloid popolare. Il suo direttore Maurizio Belpietro è stato denunciato il giorno stesso.
Sono invece diffusi e incoraggiati i più pacifisti fra i commenti. Come quello rilasciato da Umberto Veronesi ad AdnKronos: “Occorre da parte nostra uno sforzo pacificatore, e siamo proprio noi come Occidente a doverlo fare. Sono contrario all'idea di fare guerra all'Is (Stato Islamico, ndr), perché violenza chiama violenza. Più loro tagliano teste, più noi bombardiamo: qualcuno deve fermare questa catena di azione e reazione e deve farlo con il dialogo e la tolleranza religiosa. L'Is va ascoltato”. Ma “va ascoltato”, perché lo stesso Veronesi dimostra, nella stessa intervista, di non conoscere né la natura né gli obiettivi dello Stato Islamico, che lui descrive come: “un gruppo di sunniti che si sentono emarginati in Iraq e hanno creato un movimento molto estremista, di fatto perché vogliono una patria e chiedono all'Iraq di cedere una piccola area, non più grande della Lombardia, per creare lo Stato islamico”. Ma l’Isis non punta all’indipendenza di una piccola area del Medio Oriente, ma a rifondare il Califfato, l’impero islamico che va dall’Atlantico al Pacifico. E puntualmente le milizie islamiche operano dall’Atlantico (Nigeria) al Pacifico (Indonesia) cooperando allo stesso progetto e colpendo gli occidentali anche in casa loro, come hanno dimostrato a Parigi. Il discorso dell’oncologo Veronesi è però finalizzato a dire: “Soprattutto non bisogna fomentare l'anti-islamismo o in generale il conflitto religioso”. E’ questo il pensiero “mainstream” nel giorno dopo l’attentato. Condiviso anche dall’Ong Emergency, che ha lanciato subito la sua interpretazione dei fatti: “Vediamo accadere in Europa quello che da anni accade in Afghanistan, in Iraq, in Siria: le nostre scelte di guerra ci stanno presentando il conto di anni di violenza e di distruzione. Diritti, democrazia e libertà sono l'unico modo di spezzare il cerchio della violenza e del terrore”. E il loro fondatore Gino Strada conclude: “L’unico modo per far finire la violenza è smettere di usarla”. Amen.