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VATICANO

Palestina, le vecchie tesi che non servono

Le vecchie formule dei "due popoli in due Stati" non servono più a niente. Non serve neppure che venga aperta ufficialmente un'ambasciata palestinese nella Santa Sede. E che a Parigi si concluda una conferenza internazionale con dichiarazioni ormai ripetute tutte le volte. Serve esplorare nuove vie e ci penserà il nuovo presidente Usa. Uomo altamente imprevedibile.

Editoriali 16_01_2017
Bandiera palestinese

La bandiera della Palestina da sabato sventola dalle finestre della nuova ambasciata presso la Santa Sede, in via di Porta Angelica a Roma. E settanta Paesi del mondo - convocati da una presidenza francese ormai a fine mandato - ieri hanno ripetuto a Israele e Palestina che la sola soluzione per la stabilità del Medio Oriente è quella basata sui due Stati. Bene, ma adesso?

A parte il contentino ai cultori delle liturgie laiche, è ben difficile scorgere dopo questo week-end qualcosa di nuovo all'orizzonte nel conflitto che da decenni insanguina la Terra Santa. L'apertura dell'ambasciata della Palestina in Vaticano - accompagnata dall'udienza privata concessa da papa Francesco al presidente Abu Mazen (la terza) - era un fatto scontato dopo l'approvazione dell'«Accordo globale» entrato in vigore all'inizio del 2016. Accordo che - come tutti quelli siglati dalla Santa Sede con gli Stati - ha a che fare con la possibilità concreta per la Chiesa cattolica di svolgere il proprio ministero nei territori palestinesi più che con le questioni politiche legate all'esercizio della sovranità. Questioni sulle quali la posizione del Vaticano non è cambiata di una virgola da vent'anni a questa parte: è solo attraverso un negoziato diretto basato sul mutuo riconoscimento tra Israele e la Palestina che si può arrivare a un superamento del conflitto. Prospettiva che oggi continua a essere lontanissima.

Non molto diverso l'esito della Conferenza di Parigi, la classica montagna che ha partorito il topolino. L'esito del vertice è stato una dichiarazione che non fa altro che ripetere quanto già affermato mille volte. E - per di più - tra i firmatari si è pure sfilata la Gran Bretagna, uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu; vista l'indisponibilità di Israele a un coinvolgimento diretto nell'iniziativa, Londra ha preferito essere presente in Francia solo in qualità di osservatore. Lo stesso segretario di Stato americano uscente John Kerry, poi, a Parigi parrebbe essere già tornato al ruolo di sempre; sembra infatti che la prima bozza del documento finale fosse molto più dura con Israele e che la delegazione Usa sia intervenuta a smussare più di un passaggio. Si capisce allora come mai ieri sera la stampa di Gerusalemme fosse già in modalità «scampato pericolo». Tanto più che l'unico impegno concreto contenuto nel testo è una verifica della situazione entro la fine dell'anno: non esattamente una minaccia da far tremare i polsi... E si capisce anche che Netanyahu abbia trascorso la giornata a occuparsi del nuovo scandalo interno che lo vede coinvolto - è accusato di aver cercato di comprare un atteggiamento benevolo di Yediot Ahronot, il maggiore quotidiano israeliano, durante l'ultima campagna elettorale - più che a scrutare le notizie in arrivo da Parigi.

Il punto è che la partita seria a Gerusalemme è quella che comincerà dal 20 gennaio. Netanyahu ha puntato tutto sulla fine dell'era Obama alla Casa Bianca; ora, però, si ritrova nello Studio ovale un nuovo inquilino che nonostante le tante promesse (compresa quella pesante sul possibile spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme) resta un grande punto di domanda. Perché nel nuovo Medio Oriente - in cui la Russia aspira a giocare un ruolo sempre più da protagonista - anche i rapporti tra Washington e Gerusalemme potrebbero farsi un po' più complicati del previsto. Non a caso Abu Mazen (che lo ha capito bene) si è già appellato a Putin per fermare la mossa sull'ambasciata americana. E non è affatto detto che non ci riesca.

Alla fine il limite di tutti i discorsi su Israele e Palestina è continuare a ripetere all'infinito le stesse tesi di sempre, come se intorno - in questi anni, in Medio Oriente - non fosse accaduto nulla. Oggi c'è un'intera regione i cui equilibri politici sono in movimento ed è lì dentro che occorre ripensare anche la soluzione del conflitto israelo-palestinese. In qualche modo - un po' a sorpresa - ne parlava l'altro giorno proprio il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman, esprimendo in un'intervista al Jerusalem Post l'auspicio che Trump promuova una grande alleanza con i Paesi arabi moderati comprendendo al suo interno anche Israele. Una mossa per controbilanciare l'ascesa di Teheran e negoziare con i russi un nuovo assetto dell'intera regione? Di certo - in una prospettiva del genere e con garanti quei Paesi del Golfo a cui Israele ha strizzato più di un occhio in questi anni - la Palestina diventerebbe qualcosa di molto più concreto rispetto a una mera bandiera da sventolare.