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USA

Ordine e carità, la Chiesa vuol riformare l'immigrazione

Gli Stati Uniti stanno affrontando la più drammatica ondata migratoria della storia recente. Centinaia di migliaia di persone fuggono dai Paesi sudamericani in cerca di una vita migliore. Di fronte a questo esodo la Chiesa cerca un equilibrio fra il principio di accoglienza e il rispetto della legalità.

Esteri 27_07_2014
La barriera al confine Usa-Messico

Misericordia per i più deboli o rispetto della legge? È precisamente questa la domanda che si sta ponendo la Chiesa cattolica negli Stati Uniti, di fronte all’emigrazione massiccia di circa 50mila minorenni dall’inizio dell’anno, tutti provenienti dalla lunga frontiera con il Messico.

Perché minorenni? Perché, dal 2008, la legge statunitense garantisce loro un trattamento privilegiato rispetto agli altri clandestini. Per salvare i minori dal traffico di esseri umani, il Congresso (allora a maggioranza democratica) aveva prescritto di fornire loro un rifugio negli Stati Uniti, una rappresentanza legale e la possibilità di verificare i loro casi, uno per uno, in tribunale. Nel caso non vi siano i requisiti, devono comunque essere rispediti a casa, ma in attesa di un verdetto possono rimanere negli Usa e dileguarsi. Questa legge non era mai stata più di tanto contestata, se non altro per ragioni umanitarie, ma ora il problema sta scoppiando nelle mani delle autorità del Texas, che sta subendo il grosso degli effetti dell’esodo. Le famiglie e le comunità locali fanno quello che possono per sfamare e ospitare i piccoli clandestini, ma il loro aiuto non è sufficiente.

La divisione politica è netta: da un lato i Repubblicani chiedono di implementare una politica dei respingimenti, accelerando la pratica per quei clandestini che non hanno documenti e di cui non si conosce il Paese di origine; dall’altro i Democratici chiedono una maggior possibilità di accoglienza. La Chiesa cattolica è decisamente più vicina a quest’ultima posizione. Accoglienza sì, ma con molto pragmatismo, senza dar spazio ad alcuna deriva utopista. La Conferenza Episcopale statunitense si oppone ad una politica “legge e ordine” basata sulla legge vigente, come quella sostenuta dai Repubblicani e sostiene una riforma comprensiva dell’immigrazione. Anche perché prende atto che, di fronte a un’immigrazione di centinaia di migliaia di persone ogni anno, la legge attuale concede una “green card” (permesso di soggiorno e lavoro) per lavoratori non qualificati a solo 5000 persone, i permessi di lavoro per lavoratori agricoli richiedono procedure lente, difficili e costose e per i lavoratori non agricoli c’è un tetto di 66mila unità all’anno. Per la Chiesa, con grande buon senso, questi limiti sono solo un incentivo a diventare clandestini. Nella lettera “Strangers No Longer: Together on the Journey of Hope” (Stranieri mai più: insieme nel viaggio della speranza) i vescovi americani, nel 2013, hanno tracciato le linee guida della riforma, una legalizzazione guadagnata, con la buona condotta, con la volontà di integrarsi nel mondo del lavoro, con il ricongiungimento familiare dei parenti di chi è già legalizzato. I vescovi, comunque, al loro ultimo punto, scrivono nero su bianco di sostenere la legittimità dello sforzo governativo nel fermare l’immigrazione clandestina. «I vescovi ritengono che aumentando i metodi legali per entrare e lavorare negli Stati Uniti, le forze dell’ordine possano concentrarsi meglio su coloro che minacciano veramente la pubblica sicurezza».

Il documento della Chiesa americana enfatizza soprattutto l’accoglienza: dare opportunità agli emigranti dai Paesi più poveri, dar loro una chance in più per migliorare la loro esistenza, perdonare chi sbaglia o commette errori. Un atteggiamento, questo, evidente anche in quanto ha scritto, sul suo blog, l’arcivescovo di New York, Timothy Michael Dolan, «Circa una settimana fa ho assistito con vergogna allo spettacolo di una folla inferocita nel sud della California, che circondava un autobus pieno di immigranti senza tetto, spaventati e affamati, scuotendo i pugni e gridando loro di andarsene. È stato un comportamento non americano, contrario alla Bibbia, disumano. Ha funzionato, poiché gli autisti, spaventati, hanno fatto marcia indietro con i loro pullman e hanno cercato rifugio altrove». A questo atteggiamento, contrappone quello del volontariato cattolico nel Texas: «Di nuovo c’erano autobus pieni di donne e bambini immigranti, impauriti e intimiditi; di nuovo c’erano delle folle: questa volta, a McAndrews, in Texas, la folla applaudiva i profughi in arrivo e li aiutava a entrare nella parrocchia del Sacro Cuore, dove i parrocchiani e gli operatori delle istituzioni di beneficenza cattoliche li hanno accolti con del cibo, una bevanda fresca, una doccia e vestiti puliti, giocattoli per i bambini e una branda, mentre aiutavano i funzionari governativi che cercavano di registrarli e di capire quale potesse essere il passo successivo. Questa volta non ho provato vergogna, ma sollievo e gratitudine, mi sono sentito orgoglioso di essere americano e cattolico».

L’accoglienza è da intendersi come un dovere morale del cittadino, come un programma di lungo periodo da implementare con una riforma futura. Nel frattempo, però, non bisogna dimenticare che la Chiesa statunitense protegge e legittima la legalità. Dunque, la lotta all’immigrazione clandestina. Questo atteggiamento duale della Chiesa è ben descritto dal professor Samuel Gregg, cattolico, direttore delle ricerche del think tank Acton Institute. Gregg, nel suo ultimo editoriale sul National Catholic Register, invita, prima di tutto, a evitare di farsi trascinare da facili emozioni. E ricorda che: «Esiste anche una seconda parte del pensiero cattolico sull’immigrazione che risulta in notevoli condizioni applicate al diritto di emigrare. Il cattolicesimo è sensibile alla sfida che l’immigrazione pone per il Paese che l’accoglie. San Giovanni Paolo II nota, per esempio, che “praticare l’emigrazione indiscriminatamente può causare danni e andare a detrimento del bene comune della comunità che riceve l’immigrato”». Citando il papa emerito Benedetto XVI, Gregg ricorda anche che «Ogni stato ha il diritto di regolamentare l’emigrazione e di implementare politiche dettate dai requisiti generali del bene comune, sempre volte alla salvaguardia e al rispetto della dignità di ogni persona». Da queste posizioni si possono trarre due principi fondamentali: «Primo: benché esista un diritto a emigrare, questo non è un diritto assoluto. Il diritto alla vita e il diritto a emigrare non sono da porsi sullo stesso piano. Il primo è il fondamento del secondo e non viceversa. Secondo: ogni governo nazionale ha la responsabilità di formulare la propria politica dell’immigrazione, volta a servire il bene comune del suo Paese».

Samuel Gregg constata che «Il nostro attuale sistema rende molto difficile l’immigrazione legale e incentiva ad entrare in America violando le sue leggi. Ciò è l’esatto opposto di quel che le nostre leggi dovrebbero essere. Giusto per fare un esempio sull’assurdità di questa situazione: imprenditori americani ligi alla legge che cercano lavoratori specializzati, devono spendere migliaia di dollari (e senza alcuna garanzia di successo) per navigare nelle difficili acque di regolamenti bizantini sull’immigrazione. Allo stesso tempo, i trafficanti fanno lauti guadagni spedendo bambini attraverso la frontiera americana». Da qui l’aspirazione della Chiesa americana a rendere la vita più facile a chi vuole inserirsi e lavorare negli Usa e implementare la legge contro i clandestini.

Quali insegnamenti si potrebbero trarre per l’Italia, che in questo periodo è esposta (proprio come gli Usa) a un’ondata di clandestini? Il parallelo vale fino a un certo punto. Sicuramente, se negli Stati Uniti hanno un sistema di leggi sull’immigrazione “bizantino”, in Italia ne abbiamo uno che potrebbe definirsi sovietico all’ultimo stadio, per complessità, costo e tortuosità. L’incentivo a immigrare clandestinamente c’è tutto. Gli Usa, però, hanno un’immigrazione di tipo diverso rispetto a quella italiana. I sudamericani che emigrano in massa negli Stati Uniti, cercano lavoro e condizioni di vita migliori, sono cristiani, molto spesso di origine europea, parlano una lingua (lo spagnolo) che è la prima lingua straniera, per diffusione, negli Usa. Il problema è costituito dalle gang (che non conoscono confini) e da coloro che emigrano cercando sussidi e non lavoro, quelle categorie, insomma, che Gregg suggerisce di “scoraggiare” quando sono a casa e fermare quando sono alla frontiera. La situazione è molto differente in Italia e nell’Europa mediterranea in generale. Tanto diversa che pone problemi che negli Usa non prendono neppure in considerazione. Gli immigrati islamici radicali, ad esempio, non arrivano solo per cercare lavoro e condizioni di vita migliori, ma per cambiare le leggi del Paese di approdo. Ovunque raggiungano una massa critica, in Olanda, Francia, Svezia, Gran Bretagna, costituiscono vere e proprie enclave dove applicano la sharia finché possono e fin quando glielo lasciano fare. Nei popoli nordafricani e sub sahariani che emigrano verso l’Europa, il concetto di lavoro è molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati. Ayaan Hirsi Alì, esempio di donna somala che si è ribellata alla famiglia fuggendo in Olanda, nella sua autobiografia (Nomade) confessa che nei primi tempi non sapesse neppure valutare il denaro, né il risparmio, né la nozione stessa del guadagnarsi da vivere. Inquadrati in clan e strutture tribali, privi di ogni educazione all’iniziativa individuale, costretti sempre a “stare al loro posto”, molti emigranti africani finiscono spesso vittima di altri clan (malavitosi) nel paese di approdo, vengono sfruttati, oppure vagano confusi nella sconosciuta società aperta, alla ricerca di aiuti e sussidi pubblici. Costoro vanno certamente accolti, finché è compatibile con il bene comune. Ma ricordandoci sempre, come sottolinea Gregg, che emigrare “non è un diritto assoluto”.