Obamacare affondata alla Camera, ma il GOP è diviso
Questa volta, al secondo tentativo, Trump ce l'ha fatta: la riforma della sanità di Barack Obama, la cosiddetta "Obamacare" è stata respinta con un voto a maggioranza alla Camera. Ora si attende il voto al Senato. E le acque non sono affatto tranquille, perché molti repubblicani hanno disertato e lo faranno ancora. Ecco perché.
Stavolta ce l’ha fatta. Dopo lo sfacelo del 24 marzo, quando, ostinatisi per ottenere l’ottimo, i Repubblicani al Congresso rinunciarono al bene che potevano facilmente conseguire, Donald J. Trump incassa la bocciatura della riforma sanitaria varata nel 2010 da Barack Obama e da allora universalmente nota come “Obamacare”.
Giovedì 4 maggio la Camera federale dei deputati ha infatti approvato il progetto di legge che apre la strada al “repeal and replace”, l’abolizione e la sostituzione della riforma Obama da sempre invisa al popolo conservatore e al Partito Repubblicano. Finalmente, cioè, i Repubblicani che dominano il Congresso di Washington hanno trovato un inizio di accordo che permette di unire concretamente gli irriducibili del “tutto subito” riuniti nella “corrente” Freedom Caucus (quelli, cioè, che, non disposti ad accettare alcun ritardo, hanno mandato a monte il voto del 24 marzo) e quei realisti che, consci del fatto che un conto è voler “riformare la riforma” e un conto farlo, pensano di dover procedere un passo alla volta. Certamente le divisioni e le differenze permangono forti, come testimonia la stretta maggioranza con cui il provvedimento è passato, 217 voti a favore e 213 contrari, cioè un solo voto in più della soglia necessaria, ma se non altro la Destra ha evitato una seconda figuraccia su un punto nodale delle promesse elettorali fatte da Trump e qualificante della proposta politica lanciata dai Repubblicani, e soprattutto ha dato al Paese, sia quello legale sia quello reale, un segnale inequivocabile.
Del resto i 20 voti Repubblicani mancati all’appello finale sono di marca “mediana” più che ultra-conservatrice, e per lo più localizzati in quegli Stati considerati in bilico, vale a dire a rischio di rimonta Democratica nelle elezioni di medio termine per il rinnovo di tutta la Camera e di un terzo del Senato che si svolgeranno nel novembre 2018. Insomma, più dettati da paura di perdere il posto davanti alla propaganda liberal (che certamente si concentrerà sulla questione sanitaria) che da reale opposizione ideologica. Questa logica rischia peraltro di pesare molto di più al Senato, cui spetta ora il compito di votare la proposta. Nella “Camera alta”, infatti, la maggioranza Repubblicana è più esigua e il peso dei “mediani” che già pensano alle elezioni del 2018 potrebbe risultare alla fine molto maggiore, magari persino decisivo nella bocciatura del provvedimento. Al che si aprirebbe uno scontro interno al Grand Old Party non dettato dal giudizio politico e morale sull’ “Obamacare” (come già non era all’ora del primo voto del 24 marzo), nemmeno dominato dal dissidio fra “falchi” e “realisti” (come fu all’ora di quel primo voto), bensì, e un po’ tristemente, guidato dalla mera ottica della rielezione. È vero - come sosterebbero i Repubblicani in bilico - che se le elezioni si perdono, le maggioranze parlamentari cambiano, quindi meglio vincerle. Ma - risponderebbero i loro avversari - vincerle per avere rinunciato alle proprie politiche è una sconfitta ancora maggiore.
Qualcosa di analogo capitò all’allora senatore della Pennsylvania (e poi candidato nelle primarie presidenziali del 2012) Rick Santorum, cattolico intransigente e conservatore tetragono, che nel 2006 fu bocciato da un elettorato che aveva capito poco, e ancor meno apprezzato, il suo avere fatto, tanto in buona fede quanto in modo troppo complicato, campagna elettorale due anni prima per Arlen Specter (1953-2012), senatore Repubblicano sì ma radicalmente liberal tanto da finire per cambiare casacca dopo 44 anni di militanza nel GOP, soltanto per conservare la maggioranza al Congresso e contare sul fatto che l’orientamento generale del partito avrebbe poi neutralizzato la voce isolata di Specter.
Ciò detto, non va scordato che invece altri Repubblicani in bilico nel 2018 giovedì hanno scelto senza timore il ripudio dell’“Obamacare”. Perché per conservatori e Repubblicani l’“Obamacare” è il simbolo stesso di tutto ciò che non va: l’intromissione invasiva dello Stato nelle vite dei cittadini, la nazionalizzazione mascherata da buonismo, i costi che crescono e l’aborto (e la contraccezione e la sterilizzazione) regalato a spese dei contribuenti come una pillola per il mal di testa. Riuscire dunque a mettere assieme una maggioranza certo non enorme ma comunque in grado d’indirizzare il futuro prossimo dell’assemblea legislativa è un risultato storico. Un mandato per cambiare, proprio com’era nei patti con gli elettori.
Il merito del risultato va ascritto a Paul Ryan, il presidente della Camera che, così come fu colpito duramente dalla fumata nera con cui si concluse il primo tentativo dell’aula di bocciare l’“Obamacare”, oggi raccoglie i frutti sudati di una delicata quanto sapiente opera di mediazione che non sa affatto di compromesso bensì di ragionevolezza. Spetta ancora e sempre a lui trasformare adesso questa risicata ma significativa vittoria in una grande riconciliazione tra le diverse Destre dello scenario partitico americano, caso specifico del grande sforzo necessario a ricomporre il fronte conservatore dopo l’urgano Donald. Ovvero ad attrarre lui senza farsi fagocitare.