Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Colombano a cura di Ermes Dovico
IL BRACCIO DI FERRO

Nucleare, la massima pressione è quella iraniana

La volontà dI Teheran di procedere con l’arricchimento dell’uranio al 20%, non è stato certo il benvenuto che Biden si aspettava. Invece di alleggerire la “massima pressione” esercitata da Trump, il nuovo presidente USA si è trovato a dover confermare la linea dura del suo (odiato) predecessore di fronte all’ennesimo ricatto khomeinista. 

Editoriali 14_02_2021

Accanto alla bomba epidemica, si torna a parlare di quella nucleare. La tensione internazionale continua infatti a crescere a causa dei recenti sviluppi nel dossier iraniano. La volontà annunciata da Teheran di procedere con l’arricchimento dell’uranio al 20 per cento, non è stato certo il benvenuto alla Casa Bianca che Joe Biden si aspettava. Invece di dismettere, o significativamente alleggerire, la “massima pressione” esercitata dall’amministrazione Trump, il nuovo presidente degli Stati Uniti si è trovato a dover confermare la linea dura del suo (odiato) predecessore di fronte all’ennesimo ricatto mosso dagli strateghi del regime khomeinista: via tutte le sanzioni e non arricchiremo l’uranio al 20 percento, almeno per il momento. 

L’idea a Biden forse non sarebbe dispiaciuta, così da ricominciare doveva aveva lasciato con Barack Obama, ripristinando lo status quo ante al ritiro americano dall’accordo nucleare ordinato da Trump. Tuttavia, esordire nelle vesti di Comandante in Capo accettando subito la resa sarebbe stato politicamente sconveniente. Eccolo dunque rispedire il ricatto al mittente, insistendo sulla necessità che l’Iran rinunci ad arricchire l’uranio oltre la soglia consentita dall’accordo per poter discutere del sollevamento delle sanzioni. La risposta negativa da Teheran non si è però lasciata attendere ed è giunta dalla “guida suprema” in persona, Ali Khamenei.

Sapendo che l’intenzione di Biden è quella di far rientrare gli Stati Uniti nell’accordo, Teheran ha così colto l’occasione per rilanciare la sfida, con l’obiettivo di ottenere condizioni ancora più favorevoli delle precedenti in sede negoziale. Khamenei ha richiesto espressamente la “verificabilità” della revoca del regime sanzionatorio, riferendosi molto probabilmente alla possibilità che tornino ad accedere in territorio iraniano investimenti e flussi finanziari dall’Europa. È un caso che il ministro degli esteri iraniano, Javad Zarif, abbia dichiarato che ad avere ruolo fondamentale nella ricucitura dello strappo è appunto l’Europa? 

Quest’ultima è tra l’incudine e il martello. Se è stato facile potersi dissociare dalla decisione presa da Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo nucleare, più difficile sarà assumere una posizione diversa se non contrapposta rispetto all’amministrazione Biden. Il nuovo segretario di stato, Antony Blinken, ha avvertito che “all’Iran potrebbero bastare poche settimane per arrivare alla bomba atomica", ovvero per superare la soglia del 90% nell’arricchimento dell’uranio se lo volesse, e si è confrontato in una video conferenza con i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna e Germania, i tre stati membri dell’UE che hanno sottoscritto l’accordo, alla ricerca di una linea comune. 

La scoperta di quantitativi di uranio “metallico” arricchito nell’impianto di Isfahan, effettuata all’inizio di febbraio dagli ispettori dell’AIEA, la dice lunga sulla doppiezza del regime khomeinista, trattandosi di un combustile proibito secondo l’accordo poiché può essere utilizzato per attivare testate nucleari, da innestare sui missili a lunga gittata che Teheran non smette di produrre. Come se non bastasse, il 21 febbraio scadrà il limite temporale fissato dal parlamento iraniano per consentire agli ispettori dell’AIEA di compiere visite non annunciate presso gli impianti, e ciò significa che la reale consistenza del programma nucleare diventerà ancora più oscura di quanto non lo sia già. 

Con le elezioni presidenziali fissate al prossimo giugno, la partita giocata da Teheran s’intreccia con la politica interna. L’ala più conservatrice e oltranzista è attualmente favorita, e per evitare un suo ulteriore rafforzamento i presunti “moderati” dell’attuale presidente, Hassan Rohani, non possono mostrarsi troppo “deboli” e dialoganti al cospetto degli Stati Uniti, nonostante il cambio d’inquilino alla Casa Bianca. Ciò si riflette anche sul conflitto nello Yemen. 

All’annuncio di Biden riguardante la sospensione della vendita di armamenti ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti con l’intenzione di rilanciare il processo di pace, la risposta è stata l’escalation di missili ad opera degli Houthi diretta contro il territorio saudita su base pressoché quotidiana. Le parti si sono invertite: ad esercitare “massima pressione” adesso è l’Iran.