Non siamo un Paese per famiglie. Ecco le prove
Renzi che parla di abolire Tasi e Imu (ma poi spuntano altre tasse), Renzi che parla di un non meglio precisato piano famiglia (ma poi si dà da fare per allargare il concetto di famiglia). Annunci cui ormai abbiamo fatto il callo, dato che i politici tutti, parimenti i premier, vivono in una campagna elettorale permanente.
Renzi che parla di abolire Tasi e Imu (ma poi spuntano altre tasse), Renzi che parla di un non meglio precisato piano famiglia (ma poi si dà da fare per allargare il concetto di famiglia). Annunci cui ormai abbiamo fatto il callo, dato che i politici tutti, parimenti i premier, vivono in una dimensione di campagna elettorale permanente. In attesa di qualcosa di più concreto, resta il fatto che il quadro d'insieme, per quel che riguarda le politiche familiari, è allarmante. Anche se è evidentemente sbilanciata la classifica del 2015 Family Life Index di InterNations, che pone l'Italia al 32esimo posto su 41 Paesi esaminati (anche dopo Uganda e Filippine) quanto a luoghi ove crescere una famiglia, non c'è dubbio che il nostro non è un Paese accogliente per i nuclei familiari.
L’Italia, storicamente, all’interno dell’Unione Europea, è uno dei Paesi la cui quota di spesa sociale dedicata alla previdenza è tra le più alte in assoluto, quella dedicata alla famiglia tra le più basse (quota che comprende benefici legati al sostegno al reddito, alla tutela della maternità e della paternità, agli assegni familiari, agli asili nido, alle strutture residenziali per le famiglie con minori, all’assistenza domiciliare per famiglie numerose). Nel 2013 (ultimi dati Istat disponibili) la spesa per prestazioni sociali era dedicata alla funzione “vecchiaia” per il 50,4% (in crescita dell’1% rispetto al 2007), seguita da “malattia/salute” (23,6%), “superstiti” (9,3%), “disoccupazione” (6,3%), “invalidità” (5,5%), “famiglia” (4,2%, in calo dello 0,2% rispetto al 2007) e “altra esclusione sociale” (0,7%). Le proporzioni non derivano solamente dall’invecchiamento della popolazione, ma anche da precise scelte politiche. Per dirne una, il Fondo per le politiche sociali, istituito nel 1997 per trasferire agli enti locali risorse aggiuntive perché garantissero l'offerta di servizi per anziani, disabili, minori e famiglie in difficoltà, è passato dagli 1,6 miliardi di euro nel 2007 a 43,7 milioni nel 2012, per poi risalire nel 2014 a 297,4 milioni. Tra il 2007 e il 2014, la contrazione è stata dell'81%.
Chiaro che la responsabilità di tali dinamiche non sia ascrivibile interamente al governo Renzi. Ma ha la sua buona dose di colpe. Si può dare atto all’amministrazione attuale di aver introdotto alcune suggestive migliorie, come gli 80 euro in busta paga o il bonus bebè. L’effetto di tali innovazioni, tuttavia, è stato sterilizzato dall’aumento complessivo della pressione fiscale certificato, tra gli altri, dallo stesso ministero dell’Economia. Le entrate tributarie e contributive del primo semestre 2015, infatti, «evidenziano un aumento dell'1% (+3,252 miliardi), rispetto all'analogo periodo 2014», spiega il Mef. Il dato tiene conto dell'aumento dello 0,6% (+1,319 miliardi) delle entrate tributarie e della crescita delle entrate contributive dell'1,9% (+1,933 miliardi). I numeri sono influenzati dal gettito della mini Imu versata a gennaio 2014, ma di competenza dell'anno 2013 e, soprattutto, dal gettito dell'acconto Tasi 2015, pari a 2,388 miliardi, ovvero a ben il 220,1% in più rispetto all’anno precedente. Ad oggi, in ogni caso, il danno più grande è stato fatto con la riforma dell’Isee (clicca qui); sbandierata dal governo come un trionfo di giustizia sociale, ha introdotto, in realtà, il conteggio delle forme di reddito fiscalmente esenti (assegno al nucleo familiare, indennità di accompagnamento, rendite Inail ecc…) ai fini del calcolo del reddito Isee. Le famiglie con disabili, quindi, vedranno notevolmente ridotte le prestazioni sociali a cui, fino a pochi mesi fa, avevano diritto.
Val la pena spendere una parola, infine, sul disegno di legge sulle unioni civili. Senza entrare nel merito delle relative questioni etiche, ci limitiamo a una sola considerazione: il 10 marzo, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, prevede che il costo delle pensioni di reversibilità derivanti dal provvedimento si aggirerà sui 40 miliardi di euro. Il 23 luglio, il ministero dell’Economia replica che gli oneri complessivi per le casse dello Stato andranno dai 3,7 milioni nel 2016 ai 22,7 milioni nel 2025. Ad di là di chi abbia ragione, non si è mai visto un tale zelo da parte del governo che, per difendere il ddl Cirinnà, ha fatto gli straordinari, così da rispondere in tempi record. Giusto per fare un paragone, si pensi alla commissione Giovannini, nominata il 3 agosto del 2011 per dirci se i politici italiani guadagnano troppo, specie in rapporto agli omologhi di Germania, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Belgio e Austria. Dopo quasi 8 mesi, il 30 marzo 2012, dopo essersela presa con calma, l’organismo presieduto dall’allora presidente dell’Istat gettò la spugna, con questa motivazione surreale: «i vincoli posti dalla legge, l'eterogeneità delle situazioni riscontrate negli altri Paesi e le difficoltà incontrate nella raccolta dei dati non hanno consentito alla Commissione di produrre i risultati attesi».
Più di 8 mesi per non rispondere a un quesito a misura di bambino, poco meno di quattro per elaborare complicate proiezioni sugli oneri di spesa futuri. Per restare in tema: tutti, più o meno, condividono l’idea che l’unica rivoluzione in materia consisterebbe nell’introdurre il fattore famiglia, un parametro per determinare gli oneri fiscali dei nuclei familiari in misura inversamente proporzionale al numero dei figli e delle spese per il loro mantenimento. L’obiezione principale dei governi avvicendatisi negli anni, ha sempre suonato, più o meno, così: «Il fattore imporrebbe la revisione completa dell’intero sistema fiscale: è troppo complicato. E poi, durante la legislatura attuale, non ne avremmo il tempo».