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DIRITTI

Niente scuola a bimba rom. Per il giudice è tutto ok

A Bologna viene respinta la richiesta
di affidare una nomade 12enne ai servizi sociali: «Sporcizia e criminalità, condizioni normali per origine».

Attualità 11_07_2011
campo rom bambino
Di sentenza in sentenza, si legittima il principio che nel nostro Paese possano essere consentiti comportamenti o atti, configurati dall’ordinamento come reati, che non sono considerati tali solo perché commessi da immigrati o da appartenenti ad etnie specifiche. Esemplare al proposito la sentenza nei giorni scorsi della Corte d’Appello di Bologna che ha respinto la richiesta della Procura dei minori che chiedeva l’affidamento coatto ai servizi sociali di una bambina rom di dodici anni per consentirle di frequentare con regolarità la scuola dell’obbligo.

"La condizione nomade e la stessa cultura di provenienza non induce a ritenere la sussistenza di elementi di pregiudizio per la minore", ha detto la Corte, per la quale la mancanza di igiene nella quale vive la bambina, in un campo per nomadi alla periferia di Parma – oltretutto in una famiglia con seri guai giudiziari – “è un modo di vita normale per condizione e per origine”.
Ora, deve essere chiaro che sottrarre i bambini alla propria famiglia attraverso l’affidamento coattivo sia una pratica da usare con estrema cautela, e che anche da questo punto di vista in Italia si agisce spesso con leggerezza, ma in questo caso ciò che solleva domande è il modo in cui si affronta il tema dell’immigrazione.

Peraltro quella di Bologna è soltanto l’ultima di una serie di sentenze molto discutibili. Nel 2003, fece “scuola” la sentenza – anche questa del Tribunale di Bologna - che trattò il caso di una donna tunisina residente in Italia che si era sposata a Roma tredici anni prima presso un ufficio di attività varie, gestito da un somalo, con un cittadino egiziano, in base al cosiddetto matrimonio islamico “consuetudinario”, che non necessariamente deve essere registrato. Per le norme italiane, quell’atto non ha alcun valore legale, eppure i due, sullo stato di famiglia risultavano regolarmente sposati, nonostante lui già lo fosse nel suo Paese con una donna che gli aveva dato due figli. Lei ricorse al Tribunale, che riconobbe indirettamente il diritto alla poligamia in Italia, sostenendo che “il reato di bigamia può essere commesso solo dal cittadino italiano sul territorio nazionale essendo irrilevante il comportamento tenuto all’estero dallo straniero la cui legge nazionale riconosce la possibilità di contrarre più matrimoni”. 

“Politicamente corretta”, forse, ma del tutto incomprensibile, la motivazione della sentenza della Corte di Cassazione che condanna a trent’anni di carcere il padre di Hina Saleem, pakistana, sgozzata a vent’anni, nel 2006, perchè amava un cristiano e non voleva sposare l'uomo che il padre aveva scelto per lei. Muore scannata per aver  rifiutato la sharia, avvolta in un lenzuolo e chiusa in un sacco della spazzatura, viene sepolta nell'orto retrostante l'abitazione di famiglia, a Sarezzo, in Valtrompia, con la testa rivolta ad est, in segno di devozione ad Allah. Per la Cassazione quest’omicidio è stato dovuto solo ad un “distorto e patologico rapporto di possesso parentale”, non a motivi legati alla fede religiosa.

Potremmo continuare. E fuori dell’Italia la cose stanno anche peggio: in Inghilterra già operano da tempo tribunali paralleli per musulmani che si occupano di diritto di famiglia e di proprietà. In Svizzera solo pochi mesi fa è stato assolto un cittadino islamico che picchiava sua moglie, con la motivazione che era consentito dalla sua religione e cultura. E così via.

Il problema è che si è insinuata una falsa concezione per cui il rispetto delle culture altrui viene inteso come esistenza di diritti e doveri separati per gli italiani e per coloro che provengono da altri Paesi o che appartengono ad un’etnia come quella dei rom. Per realizzare l’accoglienza e l’integrazione – che rappresentano l’equivalente dell’ospitalità in base i principi del paese ospitante – dovrebbero essere gli immigrati a doversi adeguare non solo alle leggi, ma soprattutto ai nostri principi, se siamo in grado di esprimerli, ed alla nostra identità cristiana, che risponde ai principi del diritto naturale.

Se uno Stato – con le pronunce di uno dei suoi poteri – riconosce all’immigrato il diritto alla bigamia o tratta il padre che sgozza la figlia come “malato” e non come seguace di una religione che prevede la pena capitale per chi si converte o sottrae una bambina al diritto all’istruzione, garantito dalla Costituzione, è uno stato che ha già perso, che ha già abdicato alle sue regole. Alcune comunità o tribù rom trattano con “disinvoltura” i bambini: li esibiscono sui marciapiedi delle nostre città, mentre dormono o vengono allattati dalle loro madri o li addestrano, sin da piccolissimi, a raccattare elemosine o a commettere furti. In questo caso, siamo di fronte ad uno dei crimini più orrendi che vi possano essere: lo sfruttamento dei bambini e la loro tratta. Ci si deve chiedere se può considerarsi di diritto quello Stato che per rispetto delle culture altrui, acconsente che situazioni di questo tipo accadano e che considera legibus solutus una parte di coloro che vivono sul suo territorio.