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Nel Pd rivolano gli stracci. Ora tocca a Bersani attaccare

La minoranza dem ha avviato l’offensiva che dovrebbe portare, nelle sue intenzioni, a disarcionare Renzi dalla segreteria del partito e dalla guida di Palazzo Chigi. L’impresa è ambiziosa e per realizzarla ci vogliono dei tempi tecnici. Soprattutto, però, bisogna sfruttare le occasioni offerte dal calendario.

Politica 14_03_2016
Pierluigi Bersani

La minoranza dem ha avviato l’offensiva che dovrebbe portare, nelle sue intenzioni, a disarcionare Renzi dalla segreteria del partito e dalla guida di Palazzo Chigi. L’impresa è ambiziosa e per realizzarla ci vogliono dei tempi tecnici. Soprattutto, però, bisogna sfruttare le occasioni offerte dal calendario. L’opposizione antirenziana avrebbe voluto utilizzare il suo potere di interdizione e di condizionamento nelle votazioni al Senato, dove i numeri sono risicati e il premier è sempre in bilico. 

Nell’aula di Palazzo Madama, però, Renzi ha saputo conquistarsi appoggi insperati da parte del Gruppo Misto, di Ala (Verdiniani) e di altri cespugli. Così facendo, ha spuntato ai bersaniani l’arma parlamentare. La vera battaglia, quindi, la sinistra interna al Pd la sta combattendo su altri terreni. Ora ha preso la palla al balzo per delegittimare gli esiti delle primarie, che hanno visto prevalere, a Milano, Roma e Napoli, i candidati renziani, ma tra veleni e colpi di scena, col sospetto di brogli e di schede bianche inserite ad arte per gonfiare i numeri della partecipazione. Il secondo ricorso presentato da Bassolino potrebbe essere ugualmente respinto come il primo, e a quel punto bisognerà capire se l’ex sindaco presenterà una sua lista, nel qual caso le speranze del Pd di arrivare al ballottaggio nel capoluogo partenopeo sarebbero pressoché nulle.

In altre città, anche nella capitale, i dem arrancano e le divisioni interne non giovano di sicuro. Bersani, D’Alema, Speranza e gli altri oppositori a Renzi lo sanno e negli ultimi giorni hanno intensificato strumentalmente gli attacchi al segretario-premier. Quest’ultimo, intervenendo sabato alla scuola di formazione per i giovani Pd, ha rispedito al mittente, in questo caso Massimo D’Alema, le accuse di arroganza nella gestione del partito: «Chiedono rispetto per l’Ulivo, ma lo hanno distrutto». E ha aggiunto, intuendo il trappolone che la minoranza interna vorrebbe tendergli sulle amministrative: «Chi vuole mandarmi a casa la battaglia la farà al congresso del 2017».  Ma, soprattutto, il premier ha rivendicato di aver accettato alle primarie, anni fa, la sconfitta contro Bersani ed ha escluso che le amministrative possano essere un test anche per il governo. Il suo vero banco di prova rimane il referendum costituzionale di ottobre. Se lo perderà si dimetterà, questo continua a dire Renzi.

Da Perugia, dove ieri la corrente minoritaria del Pd guidata da Roberto Speranza ha chiuso la sua convention, è arrivato un altro duro affondo contro Palazzo Chigi, questa volta da parte di Pierluigi Bersani: «Renzi sta comodamente governando con i voti che ho preso io. Non io Bersani, io centrosinistra. Io, assieme ad altri, sto cercando di tenere dentro il Pd della gente che non è molto convinta di starci. A volte si ha l’impressione, invece, che il segretario voglia cacciarla fuori. Il segretario deve fare la sintesi, non deve insultare un pezzo di partito». All’ex segretario, che si è anche detto preoccupato dello spostamento al centro del Pd, con l’avvicinamento da parte di Verdini e Alfano, ha risposto il presidente del partito, Matteo Orfini: «Non ci sono le alleanze del futuro. Per il futuro c’è il Partito democratico».

Il primo round della resa dei conti interna tra renziani e antirenziani si giocherà, dunque, alle amministrative. Checchè ne dica il premier, una sconfitta del Pd indebolirebbe anche l’esecutivo, perché ridarebbe fiato alle trombe dei malumori interni al partito, con tantissimi parlamentari che temono di non essere ricandidati alle prossime politiche e che potrebbero, quindi, alzare il prezzo del loro appoggio al governo. Il secondo e decisivo round riguarderà le riforme. L’esito del referendum sul Nuovo Senato, previsto per ottobre, segnerà la fine del renzismo (in caso di vittoria dei no) o l’inizio di una nuova fase del renzismo (in caso di successo dei si). Se passerà definitivamente il ddl Boschi, anche con il referendum confermativo, la storia della legislatura potrà dirsi conclusa e il fronte governativo potrebbe partire da li’ per avviare la campagna elettorale per le politiche. 

In teoria la legislatura scade nel febbraio 2018, ma che senso avrebbe tirarla per le lunghe fino ad allora, tenendo in vita per un altro anno un Senato di fatto cancellato dalla riforma votata dai cittadini e trasformato in qualcosa di profondamente diverso? Se Renzi riuscisse nell’intento di anticipare a febbraio 2017 le elezioni politiche, potrebbe celebrare il congresso del partito, previsto per la metà del 2017, da premier finalmente eletto dal popolo e, soprattutto, avrebbe la certezza di poter contare, nelle liste del Pd, su una pattuglia di fedelissimi assai più cospicua di quella attuale. La minoranza dem lo sa e quindi prova a far perdere all’ex sindaco di Firenze sia le amministrative sia il referendum costituzionale. Giochi di partito, dai quali, però, dipende la sopravvivenza del governo, della legislatura e dei padri fondatori del Pd, che Renzi non vede l’ora di rottamare una volta per tutte.