“Nel nome di Dio”, romanzo tra storia e luoghi comuni
Ambientato attorno al 1250 e nella Settima Crociata guidata da san Luigi IX, “Nel nome di Dio” di Luigi Panella è un romanzo dal doppio volto. Da un lato, ricco di dettagli storici precisi; dall’altro, con i soliti luoghi comuni che contraddicono perfino il Vangelo, non riuscendo a sottrarsi al politicamente corretto.
Vista la pubblicità a tutta pagina su Il Giornale, intrigato dal sottotitolo («Le cronache dell’inquisitore»), l’ho preso e letto. Anche perché il mio romanzo d’esordio, tanti anni fa, si intitolava proprio L’inquisitore. E all’Inquisizione ho dedicato molto tempo, articoli e libri (l’ultimo dei quali, prefato da Franco Cardini, attualmente circola nientemeno che in Brasile). Questo Nel nome di Dio, di Luigi Panella (Rizzoli, pp. 400) è ambientato attorno al 1250 e nella Settima Crociata guidata da san Luigi IX, re di Francia.
Ci sono flashback riguardanti la Roma di Nerone. La precisione storica è impeccabile, a parte qualche perplessità come questa: ad Acri c’è un tunnel che collegava la caserma dei templari alle difese sul mare, io stesso l’ho percorso perché è un’attrazione turistica (si paga il biglietto). «I templari sono ossessionati dalla segretezza. Ma non puoi tenere una casa ai margini del quartiere pisano e pensare che i pisani, sempre in allarme contro genovesi e veneziani, non se ne accorgano e non capiscano che cosa nasconde». Ora, quel tunnel serviva ad accorrere al più presto in caso di attacco. E come si fa a nascondere decine se non centinaia di guerrieri che si precipitano? Boh. A parte questa (e qualche altra) perplessità, il libro, come ho detto, è storicamente preciso, tanto che ogni capitolo o addirittura paragrafo è preceduto dalla data, in arabo se si parla di saraceni, in latino se si parla di romani. I nomi, i saluti, i gradi militari sono tutti esatti, e bisogna leggere con un segnalibro nel glossario in fondo per la traduzione o il significato di amir, contubernia eccetera.
Però la descrizione fisica dell’inquisitore, che si presume sia il protagonista, si ha solo a pag. 253. Prima, uno se lo deve figurare come crede, salvo poi doversi ricredere. Non solo, ma c’è il déjà vu: l’inquisitore non sopporta di essere toccato. Poiché lo stesso fa un altro inquisitore letterario, Eymerich, il lettore è indotto a pensare gli inquisitori un po’ schizzati.
Infatti, il limite del romanzo è, a mio immodesto avviso, tutto nei soliti luoghi comuni: gli inquisitori sono fanatici e sanguinari, i templari ambigui e avidi, tra Dio e Allah tutta questa differenza in fondo non c’è, e così via. Un po’ come il film Le crociate di Ridley Scott (titolo originale, Kingdom of Heaven, Il Regno dei Cieli, e non a caso), dove i due protagonisti, Baliano e Saladino, sono agnostici se non atei; tutti gli altri, cristiani e musulmani, o ignoranti o bigotti. Nel romanzo Nel nome di Dio il re san Luigi è un brav’uomo, ma tendente al baciapilismo. Da compiangere. Vabbè, licenze poetiche. È un romanzo. Dove però ci si imbatte in un altro déjà vu: il film The Body con Antonio Banderas del 2001, tratto anch’esso da un romanzo. Non posso dire di che si tratta perché costituisce il plot della caccia al tesoro danbrowniana de Nel nome di Dio.
Andando avanti si incontrano altri luoghi comuni, come l’innocenza di Nerone nel famoso incendio di Roma. O san Pietro che, tacciato di essere il capo dei cristiani, risponde: «Io non sono capo di nulla. Sono solo un apostolo di Gesù». E san Paolo: «Anche tu lo hai visto risorto?». Risposta: «Non l’ho visto, anche se l’ho incontrato tante volte». Boh. E, ancora, «le cento libbre di mirra e aloe portate da Nicodemo dovevano essere qualcosa di straordinariamente prezioso, di unico». Così unico che le aveva trovate in negozio, assieme ai teli di lino, basta leggere il Ricciotti se non si vuol credere al Vangelo. «Essi quindi sigillarono il sepolcro con una pietra». Insomma, si ha l’impressione che l’autore si sia documentato allo spasimo su certe cose, ma su altre no: la pietra chiudeva le tombe, ma i sigilli erano altra cosa, analoghi se non uguali a quelli odierni. A proposito della condanna di Cristo, il Sinedrio è innocente: la responsabilità fu solo romana. «Sarebbe un altro elemento che scagiona gli ebrei». «Certo che lo sarebbe. E noi li stiamo perseguitando da più di mille anni.». Infatti, i più stavano a Roma, sotto il naso del Papa.
Per concludere, un romanzo storico che si legge volentieri e da cui si apprendono molte cose di dettaglio. Ma che non riesce a sottrarsi alla vulgata politicamente corretta. Anzi, pare non averci nemmeno provato. Peccato.