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VATICANO-MYANMAR

Myanmar, la violenza dietro la pace apparente

La Santa Sede e il Myanmar (ex Birmania) ripristinano le relazioni diplomatiche. La decisione avviene dopo l’incontro, simbolicamente ed emotivamente molto importante, fra Papa Francesco e Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, ex dissidente. Ma nel paese continuano le violenze dell'esercito soprattutto ai danni della minoranza Rohingya. 

Esteri 07_05_2017
Aung San Suu Kyi

La Santa Sede e il Myanmar (ex Birmania) ripristinano le relazioni diplomatiche. La decisione avviene dopo l’incontro, simbolicamente ed emotivamente molto importante, fra Papa Francesco e Aung San Suu Kyi, attuale ministro degli Esteri della Repubblica del Myanmar, premio Nobel per la Pace, ex dissidente con una storia pluri-decennale di persecuzione alle sue spalle. Non è tutto rose e fiori, tuttavia. La repressione dei diritti umani nello Stato del sudest asiatico è ancora drammatica, nonostante i grandi cambiamenti.

“La Santa Sede e la Repubblica dell'Unione del Myanmar, desiderose di promuovere legami di mutua amicizia, hanno deciso di comune accordo di stabilire relazioni diplomatiche a livello di nunziatura Apostolica da parte della Santa Sede e di Ambasciata da parte della Repubblica dell'Unione del Myanmar”. Quello fra il Vaticano e l’ex Birmania è stato un lungo percorso di riavvicinamento che va di pari passo con il graduale processo di riforma che sta ripristinando la democrazia dopo decenni di dura dittatura militare. La giunta militare ha ceduto parte del suo potere al parlamento, sin dal 2008, quando, all’indomani del devastante ciclone Nargis che devastò il paese, assieme agli aiuti internazionali sono arrivate anche le prime riforme. All’indomani del disastro naturale è stata approvata una nuova Costituzione. Un governo civile ha assunto il comando nel 2011. Di democrazia e di elezioni vere, però, non si è parlato almeno sino al 2014. I militari, però, si riservano il 25% dei seggi parlamentari, garantendosi la maggioranza o almeno il potere di ostruzionismo tramite facili alleanze con i partiti a loro vicini, fra cui l’attuale maggioranza del Partito Unione Solidarietà e Progresso. A questa norma, già molto vincolante, se ne è aggiunta un’altra, una vera e propria legge contra personam promulgata per impedire ad Aung San Suu Kyi di diventare presidente. E’ l’articolo 59 della Costituzione che impedisce a un cittadino birmano di diventare capo dello Stato se ha figli stranieri. I figli di Aung San Suu Kyi sono cittadini britannici, come il defunto marito. Aung San Suu Kyi ha comunque assunto l’incarico di ministro degli Esteri nel marzo del 2016, nel primo governo civile del paese formatosi dopo le elezioni del novembre 2015.

Da allora ad oggi, la titolare degli Esteri del Myanmar, forte della sua esperienza di dissidente amata in tutto il mondo e del suo premio Nobel, sta pazientemente ricucendo le relazioni internazionali del suo paese. Sono sette i piccoli paesi con cui sono state ripristinate relazioni diplomatiche: Guinea, Malta, Ecuador, Seychelles, Liberia, Isole Marshall e, appunto, Vaticano. Su quest’ultimo “È stato un processo molto veloce e senza intoppi – come dichiara il cardinale Charles Maung Bo nella sua intervista a Vatican Insider - Siamo felicissimi e tutti i birmani lo sono. È un evento importante per tutta la nazione, non solo per i cattolici. Siamo convinti che sarà un passo utile per dare un contributo alla pace e l’armonia religiosa nel nostro Paese”.

Di pace e di armonia, per ora, però, ce n’è ben poca. Come denunciano Human Rights Watch e Amnesty International, nell’ultimo anno si assiste ad un’escalation di violenza contro le minoranze etniche e in particolar modo contro i Rohingya, di fede musulmana che vivono nello stato meridionale del Rakhine.

L’ultima ondata di violenza militare si è abbattuta sui Rohingya dopo un attentato a tre posti di frontiera ai confini interni del Rakhine, il 9 ottobre 2016. Da novembre sono state condotte vaste operazioni militari in tutta la regione, anche con l’impiego dell’aviazione. Le forze armate non fanno troppi distinguo fra civili e militari. Secondo le stime di Human Rights Watch, almeno 430 case sono state distrutte nel solo mese di novembre e 30mila civili costretti alla fuga. L’uso della tortura sui prigionieri, le violenze sessuali sulle donne, le esecuzioni extra giudiziali sono sistematiche in queste campagne militari. L’accesso è negato sia agli operatori umanitari che agli osservatori internazionali. In quattro anni di repressione, si contano 120mila Rohingya rifugiati interni, a decine di migliaia hanno tentato la fuga in mare, creando uno dei più massicci fenomeni di emigrazione di questi anni. Un caso di cui si è occupato recentemente anche lo stesso Papa Francesco.

L’arrivo al governo del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi avrebbe potuto portare alla fine delle violenze interne contro le minoranze? L’estate scorsa, dal 31 agosto al 3 settembre aveva presieduto la Conferenza di Pace dell'Unione volta a ricucire con i gruppi armati non-statali del Myanmar. I combattimenti, sia nello stato del Rakhine che nello stato settentrionale Kachin (abitato dalla minoranza Karen) sono però continuati come se nulla fosse. L'esercito è ancora "immune" al controllo del governo civile. Anche dissidenti, attivisti e critici del governo sono arrestati, così come vengono ugualmente represse la libertà di assemblea e di associazione. Dalle scorse elezioni, si contano almeno 90 prigionieri per motivi politici. I cambiamenti sono sempre lenti. Purché inizino a produrre effetti, però.