LIBIA
Muhammar Gheddafi e la corte di (in)giustizia
Che alla fine di una guerra chi vince debba processare gli sconfitti è cosa moderna, e non ha nulla di giusto. Serve il ritorno al diritto naturale.
Attualità
06_09_2011
Chi vuole condurre Gheddafi davanti a una corte di giustizia – ammesso che qualcuno riesca a prenderlo – ha più di qualche argomento. Il più serio, citato dallo stesso Zagrebelsky, è che si deve evitare il linciaggio del dittatore, la sua esecuzione sommaria, magari eseguita per mano di una folla imbestialita. L’Italia ne sa qualcosa, visto che ancora porta impressa sulla pelle la vergogna di piazzale Loreto. Una mattanza preceduta dalla fucilazione senza processo di Benito Mussolini, avvenuta sul lago di Como alcune ore prima che il corpo venisse orrendamente sfigurato e appeso a un distributore di benzina, finchè il cardinale Ildefonso Shuster non pretese e ottenne pietà per l’uomo osannato fino a qualche anno prima da milioni di italiani.
Se si tratta di risparmiare a Gheddafi e al mondo spettacoli del genere, non si può che essere d’accordo.
Molto meno convincente è la fiducia quasi metafisica che Zagrebelsky e altri come lui mostrano nelle corti di giustizia sovrannazionali e nella creazione di una giurisdizione planetaria in grado di raggiungere e colpire ogni malvagio in ogni angolo del mondo, come un implacabile Grande Fratello.
Innanzitutto, chiunque può accorgersi che in questo discorso si incrociano in un groviglio fittissimo guerra, politica e diritto. Tanto per essere chiari: se qualcuno non avesse deciso di liquidare Gheddafi con una vera e propria rivoluzione – o guerra civile intestina – La Stampa non pubblicherebbe editoriali sulla necessità di processare il Rais. Questo significa che, purtroppo, nella politica internazionale la forza e il potere della spada rimangono la fonte di legittimazione più importante, se non l’unica: si processano in genere dittatori vecchi, deboli e malati, caduti in disgrazia. Nessuna Corte sovrannazionale ha mai processato Stalin, Pol Pot o Mao Tse-Tung. Si processa Pinochet, ma nessuno, per quel che ci risulta, ha ancora chiesto di portare alla sbarra Fidel Castro. La prima considerazione è dunque di ordine pratico, e smaschera una iniquità di fondo: i dittatori sono buoni e non processabili se restano in sella; diventano cattivi e reprobi se invece cadono e si possono calpestare. Non c’è che dire: un bell’ideale di giustizia.
Seconda osservazione: queste “corti sovrannazionali” non sono altro che il braccio secolare di cui si servono i vincitori per punire gli sconfitti. L’idea che alla fine di una guerra chi vince debba processare (e annientare) gli sconfitti è tipicamente moderna, e non ha proprio nulla di giusto né di nobile. I vincitori dovrebbero già ritenersi appagati dalla facoltà di scrivere la storia; pretendere anche di diventare giudici in missione per conto dell’umanità è francamente troppo.
Zagrebelsky cita Norimberga, e fa male. Perché quella non fu una bella pagina di giustizia, restando ovviamente qui fuori discussione che i nazisti avevano commesso dei crimini orrendi. Ma Norimberga mise a nudo una questione fondamentale, che oggi è se possibile ancor più irrisolta: la necessità di un criterio di giudizio più alto e più forte di quello rappresentato dai codici e dalle leggi scritte dalle mani dell’uomo. Gli imputati a Norimberga si difesero invocando a loro discolpa l’esistenza di norme e di ordini superiori formalmente validi, in base ai quali essi dovevano fare ciò che fecero. In quegli stessi anni in tutta Europa si era diffusa, dilagando, la dottrina giuridica che chiamiamo “positivismo giuridico”, in base alla quale non esiste altro diritto al di fuori di quello positivo, cioè di quello scritto nei codici e nelle gazzette ufficiali. E non esiste altra giustizia al di fuori della conformità delle sentenze alle leggi positive. Stando così le cose, tutti gli imputati di Norimberga avrebbero dovuto essere rimandati a casa con tante scuse, non esistendo al momento dei fatti commessi una legge in vigore nel loro territorio che li condannasse per aver deportato torturato e ucciso milioni di innocenti.
Ma quella assoluzione sarebbe stato un risultato aberrante e un disastro politico, il che indusse i giudici – animati per altro da un furibondo revanscismo ideologico - e riscoprire precipitosamente le categorie della legge naturale, travestite sotto l’etichetta dei “crimini contro l’umanità”.
Ora, i giudici che oggi dovessero interrogare Gheddafi - assicurandogli (c’è almeno da sperarlo) l’esercizio dei diritti di difesa fondamentali - potrebbero sentirsi rispondere qualche cosa del genere: e cioè che il Rais esercitava un’autorità legittima, conforme al diritto libico e/o a quello islamico, e che niente e nessuno ha facoltà di giudicare l’esercizio di quel potere.
Il guaio è che da Norimberga a oggi la situazione mentale dell’uomo moderno si è, se possibile, fatta ancor più patologica, essendo ormai avvolta dentro la fitta nebbia del relativismo. Zagrebelsky e i giuristi della sua scuola non credono affatto nell’esistenza della legge naturale, scritta da Dio e impressa nel cuore dell’uomo: per loro Dio non c’è e non c’entra, la legge naturale è un mito irrazionale, e l’unico diritto è quello scritto dalla mano degli uomini. In base a quale criterio superiore, a quale giustizia e a quale verità una corte sovrannazionale dovrebbe essere in grado di scrivere sulla lavagna i buoni e i cattivi, francamente, non è dato saperlo.
L’uomo della strada capisce benissimo che un dittatore sanguinario deve essere fermato e punito: avverte dentro un urlo di giustizia che è rivelatore proprio di quella verità sull’uomo e sul bene, che i relativisti in guanti bianchi, i nipotini dei giacobini, i secolarizzatori anticristiani in servizio permanente effettivo non vogliono accettare per nessuna ragione al mondo. Senza un ritorno serio, onesto, ragionevole e oggettivo al diritto naturale e alla sua fondazione metafisica, la giustizia rimane solo una maschera dietro cui si nasconde la smorfia terribile del potere. Assai simile, tutto sommato, a quegli stessi “cattivi” che vuole processare.