Montale e il mistero di una morte "cristiana"
Trent'anni fa la scomparsa del poeta genovese che in punto di morte chiese i sacramenti, a riprova di un'ostinata anche se spesso delusa ricerca di Dio.
Il 12 settembre di trent'anni fa moriva Eugenio Montale (1896-1981). Pubblichiamo qui sotto la cronaca dell'ultimo saluto al poeta firmata da Cesare Cavalleri, direttore di Studi Cattolici, uscita sul mensile cattolico all'indomani della scomparsa del vate genovese.
Milano, domenica 13 settembre 1981, ore 15,10. Entro nella clinica «san Pio X» per visitare la spoglia di Montale.
La notizia della morte del poeta ha fatto il giro della città, numerosi amici hanno telefonato per quel bisogno di ritrovarsi che i superstiti avvertono sotto il peso di un’assenza. I giornali hanno fatto in tempo a inserire la notizia in prima pagina, con l’ora precisa della morte: le 21,25 di ieri. Nella hall della clinica (marmi e cristalli) un’infermiera e il medico di guardia, gentili e consapevoli del ruolo, spiegano come raggiungere la camera ardente. Bisogna uscire, costeggiare l’edificio fino all’angolo con via Paolo Bassi, entrare dall’altro cancello. Pioviggina, è un pomeriggio decisamente milanese.
Seguo le indicazioni, scendo la stretta rampa, mi guida il cartello Camere mortuarie. Montale è vicinissimo all’ingresso, subito lì a sinistra, in una camera dal basso soffitto, vasta, piena di fiori. Il catafalco è alto, il volto di Montale è sereno, con un vago sorriso. Gli hanno messo un vestito blu, forse lo stesso con cui si era recato a Stoccolma sei anni fa per ricevere il Nobel. Le braccia composte lungo i fianchi, le mani piccole, bianchissime, con i segni dell’artrite dei vecchi. L’immobilità è ancor più impressionante per chi ricorda il tremito della mano, i tic facciali di Montale vivo. Lì a fianco, confortata da due donne, c’è la Gina, Gina Tiossi, la governante che gli è stata vicina per 37 anni, ricordata anche in alcune poesie. È lei che, all’annuncio della nomina di Montale a senatore a vita, in piena notte «fu destata e corse / tutta eccitata a dirmi: ce l’ha fatta!» (L’opera in versi, Einaudi, Torino 1980, p. 425)), è lei che «scaccia con la scopa il merlaccio» (Ibidem, p. 507)), e il suo nome è anche in un titolo:
Gina all’alba mi dice
il merlo è sulla frasca
e dondola felice. (Ibidem, p. 570)
I visitatori si alternano silenziosi, qualcuno fa il segno di croce. Mi spiace dirlo perché odio il giovanilismo: ma effettivamente ci sono molti giovani, che evidentemente hanno scoperto Montale da poco, a scuola. Controvoglia registro anche questo. Mi metto a recitare il rosario in un angolo, passando con lo sguardo dal poeta al Crocifisso sulla parete. Quasi contemporaneamente tre suore hanno fatto altrettanto, per conto loro. Sosta anche un giovane sacerdote in clergyman, che prega a fior di labbra. Fuggevolmente ricordo che anche Montale conosceva il rosario, ne parlava all’Iride de La Bufera:
e altro rosario
fra le dita non ho, non altra vampa
se non questa, di resina e di bacche,
t’ha investito. (Ibidem, p. 239)
Ritorna con insistenza il pensiero che non mi ha abbandonato fin dal mattino: Montale avrà ricevuto i sacramenti? Questa è la cosa più importante per chiunque muoia, più importante del Nobel. Sostava nella camera fin troppo refrigerata dai condizionatori (una situazione molto montaliana: una camera ardente troppo refrigerata) un signore commosso, forse un parente, al quale facevano riferimento gli inservienti venuti a spostare i fiori. Fra poco la salma sarebbe stata messa nella bara e trasferita a Palazzo Marino per gli estremi onori pubblici.
Finito il rosario, da quel signore mi informo sull’orario dei funerali e, incoraggiato dalla sua cortesia, chiedo se Montale, durante il soggiorno in clinica, aveva visto qualche sacerdote e se aveva ricevuto i sacramenti. Mi risponde di sì, che Montale parlava spesso col cappellano e che, naturalmente - lo diceva proprio come se fosse la cosa più ovvia - gli erano stati amministrati i sacramenti.
È la notizia che quasi non osavo sperare. Rientro nell’atrio principale della clinica e chiedo del cappellano. Poco dopo, padre Giuseppe Bressanin, con la rossa croce dei camilliani sulla tonaca, mi fa entrare nel suo studio. Dal 3 agosto, quando Montale fu ricoverato, padre Bressanin si è recato nella sua stanza quasi tutti i giorni. Il poeta lo accoglieva sempre volentieri, quasi lo cercava. Parlavano di molte cose e sempre concludevano con una preghiera. Un giorno, poiché la conversazione si era protratta più a lungo del solito, padre Bressanin stava per ritirarsi senza aver detto la preghiera, nel timore di affaticare il malato. Ma Montale lo richiamò: «E oggi non preghiamo?». Prontamente padre Bressanin incominciò il «Padre nostro»; Montale lo interruppe: «In latino...», e unì la sua voce a quella del cappellano.
Padre Bressanin, purtroppo, non osò proporgli di confessarsi e di ricevere la Comunione; ma dal tono e dall’interesse delle conversazioni si è convinto che Montale desiderasse avvicinarsi al Signore, accogliendo la persona del sacerdote. «E poi», aggiunge il cappellano, «la lunga degenza senza dubbio l’ha purificato. Il dolore è sempre medicina». Bastava? Per Montale forse sì, se in uno degli Xenia in morte della moglie aveva scritto:
«Pregava?». «Sì, pregava Sant’Antonio
perché fa ritrovare gli ombrelli smarriti e gli altri oggetti
del guardaroba di Sant’Ermete». «Per questo solo?». «Anche per i suoi morti
e per me».
«È sufficiente» disse il prete. (Ibidem, p.290)
Giovedì 11, due giorni prima della morte, padre Bressanin gli amministrò l’Unzione degli infermi: Montale era semicosciente. La Gina e i familiari ne furono molto contenti, e condivisero l’opinione di aver interpretato l’intenzione di Montale. Chiedo a padre Bressanin se si può dire che Montale abbia fatto una morte cristiana. «Non ne ho alcun dubbio», risponde. Mi riferisce anche un dettaglio curioso e gentile: Montale riforniva di vin santo per la Messa la sua parrocchia, San Francesco di Paola, in via Manzoni. Gliel’ha detto il parroco, quando padre Bressanin gli comunicò per telefono la morte del poeta.
Scrivo queste cose non per una sorta di annessionismo, assolutamente fuori luogo: Montale non è Arthur Rimbaud, e tantomeno io sono la sorella di Rimbaud o il cognato Paterne Berrichon (Peraltro, si è anche esagerato sulla «strumentalizzazione» cattolica che i congiunti fecero dell’opera di Rimbaud dopo la sua morte. In ogni caso, è storicamente accertabile che Rimbaud in punto di morte ritrovò la fede e, per interessamento della sorella Isabella, ricevette i sacramenti). Davanti alla morte non sono ammesse tergiversazioni, e bisogna cogliere la verità anche della morte di Montale. Perché la sua morte «cristiana» getta una luce non solo sulla sua vita, ma anche sulla sua poesia. Questa morte ci conferma che la poesia di Montale è grande in quanto è stata un ininterrotto e pur spezzato dialogo con l’Eterno, un’ostinata anche se spesso delusa ricerca di Dio.
Di questa ricerca Montale ci ha dato quasi sempre il rovescio oscuro, la superficie corrosa: ma la sua grandezza è nel fatto che, appunto dicendoci «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», lasciava intatto lo spazio del mistero complementare a quella negazione. Ed è il grande spazio del mistero a reggere la tanto suggestiva negazione. La poesia di Montale vive del riverbero delle grandi domande alle quali non ha voluto sottrarsi, anche se la risposta è stata, fin dal 1923, «qualche storta sillaba e secca come un ramo» (Ibidem, p. 27).
(da: Studi cattolici, n. 248, ottobre 1981)