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LA MOSTRA

Monet: nella luce il segreto della realtà

Il fascino del paesaggio e dei suoi continui mutamenti ci è proposto a Palazzo Reale di Milano da 53 dipinti di Monet, provenienti dalla collezione del Musée Marmottan di Parigi. Il padre dell’Impressionismo mostra il suo amore alla realtà dipingendo “dal vivo”, per poter così catturare l’incanto della luce nell’istante presente. E donarla oggi a noi.

Cultura 15_11_2021

“Non voglio dipingere altro che la bellezza dell’aria”, amava dire il pittore francese Oscar-Claude Monet (1840-1926). In effetti nella seconda metà del XIX secolo la natura attira gli artisti fuori dai loro atelier: il richiamo del “vero” li porta alla ricerca di un contatto diretto, fino all’esaltazione della pittura en plein air, di cui si rivelano campioni assoluti gli Impressionisti. Le innovazioni tecniche di fine Ottocento favoriscono questo modo di esprimersi sulla tela, grazie a cavalletti pieghevoli, materiale più leggero e nuovi pigmenti per la tavolozza (in tubetti di metallo chiusi con un tappo a vite). A partire dal 1850 sono disponibili nuovi colori più luminosi e stabili per i pittori girovaghi, come il giallo cadmio, che applicati direttamente alla tela, lavorando all’aperto, consentono di cogliere con freschezza e immediatezza tutti gli effetti luministici che la visione diretta fornisce. Ma la luce è cangiante e bisogna perciò riuscire a catturare l’istante. Come? Lo possiamo comprendere perfettamente grazie alla bella mostra Monet. Dal Musée Marmottan Monet, Parigi, allestita col rigore di un percorso cronologico al Palazzo Reale di Milano fino al 30 gennaio 2022.

Per restituire sulla tela il bagliore del momento nasce l’idea delle serie, con una declinazione stagionale, quotidiana, addirittura oraria del motivo prescelto. Libero da costrizioni formali, il colore acquista una propria autonomia e l’opera riflette un’istantaneità che la inserisce nel fluire incessante della vita. “Qualunque sia il soggetto che ritrae, l’artista lo trasfigura nella luce: lo esalta mescolando materia e spirito, lo rivela nella sua luminosità e movimento”. Così in mostra sono proposte diverse versioni di Ninfee, in cui il maestro si concentra sullo specchio d’acqua, sugli isolotti di ninfee che lo popolano, sui riflessi delle nuvole. Il suo è proprio il tentativo di dipingere la luce, più ancora che rappresentare un paesaggio (a lui così caro nel giardino acquatico di Giverny). Aveva un modo rivoluzionario di procedere “per ore”, in vari momenti della giornata, pur di restare fedele alla realtà. Si sposta molto in Francia, a Londra e in Italia, alla ricerca di stimoli per la sua pittura di luce. Tra un viaggio e l’altro è colpito dai covoni disseminati nella campagna di Giverny. “Lavoro tanto”, afferma. “Sono ossessionato dal voler rendere una serie di effetti diversi (dei covoni), ma in questo periodo dell’anno il sole tramonta così rapidamente che non riesco a stargli dietro… Sto diventando di una lentezza esasperante, ma più vado avanti, più mi rendo conto che bisogna lavorare molto per riuscire a rendere ciò che cerco: l’istantaneità, l’atmosfera soprattutto, la luce che si diffonde ovunque, e più che mai disprezzo le cose facili, venute di getto”.

Il percorso espositivo milanese si snoda lungo l’intera parabola artistica del maestro impressionista. Il parigino Musée Marmottan - la cui storia è raccontata in mostra - possiede il nucleo più numeroso al mondo di opere di Monet, frutto di una generosa donazione del figlio Michel, avvenuta nel 1966. Suddivisa in sette sezioni e curata da Marianne Mathieu, direttrice del suddetto museo, ci introduce alla scoperta di opere chiave dell’Impressionismo, partendo dai primissimi lavori di Monet: due incantevoli ritratti del figlio Michel e l’arguta rappresentazione di Poly pescatore a Belle-Île-en-Mer, che ben coglie la durezza delle condizioni di vita sull’isola al largo della costa della Bretagna e il carattere schivo del soggetto rappresentato. Si prosegue con gli amati paesaggi rurali e urbani di Londra, Argenteuil, Vétheuil, o con la  celebre spiaggia normanna di Trouville. E restiamo affascinati dalla resa miracolosa di riflessi e scintillii mutevoli, effetti misteriosi della luce, o dai vaghi dissolvimenti degli edifici nella bruma o nella nebbia, come nel dipinto del villaggio di Vétheuil nella nebbia o nella tela spettrale Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi.  

Nell’autunno 1899 Monet acquista Giverny: così può replicare a piacimento lo stesso motivo, concentrandosi sulla ricerca di sfumature e variazioni. Possiamo ammirare diverse versioni de Il ponte giapponese, realizzato sullo stagno delle ninfee di Giverny. Ma lo sguardo del pittore muta con il tempo, al punto che Monet non distingue più i colori come prima. Nel 1912 gli viene diagnosticata una cataratta all’occhio destro.“Non percepivo più i colori con la stessa intensità”, confessa. Infatti sulla tela riporta dettagli sempre più dissolti, in una luce diventata accecante. Un turbinio di pennellate cerca di ovviare alla sua percezione falsata; nell’ultima serie del Ponte giapponese i contrasti di colore sono esasperati. Forse proprio queste tele, poste alla fine del percorso espositivo, riscoperte nel dopoguerra, hanno influenzato l’espressionismo astratto degli anni Cinquanta. Le ultime opere sono come il grido di chi sa di essere stato tradito dallo strumento principe per guardare la realtà: il suo occhio. Malato, non riconosce più i colori. Lui, che aveva voluto rappresentare solo ciò che aveva davanti, si trova costretto a dipingere la sua stessa visione, ancorché alterata. E perciò quegli “strani ciuffi di rose sotto un cielo blu” (come Paul Valery ha definito le tele dal titolo Le rose, tra i dipinti del periodo terminale di Monet) ci appaiono ancor più un miracolo nella loro spumosa levità. Certo, che un uomo abbia dovuto soffrire fino alla fine per restituirci il più fedelmente possibile la bellezza del dono della luce, attraverso la luminosità affascinante dei suoi quadri, ci incanta in modo particolare, soprattutto in tempi oscuri come i nostri.