Missouri Mai soffiare sul fuoco razziale
Ferguson, Missouri, Stati Uniti: un poliziotto bianco spara e uccide un ragazzo nero disarmato. L'inchiesta è in corso e non si conoscono ancora le cause dell'uccisione. Ma nella cittadina del Missouri dilaga la rivolta degli afro-americani e invece di disinnescare la bomba, i media e le autorità giocano la carta razziale.
Nella cittadina di Ferguson, nello stato del Missouri, Stati Uniti, dopo una settimana di scontri e saccheggi è arrivata la Guardia Nazionale. L’origine del tutto è l’uccisione di un ragazzo afro-americano, Michael Brown, 18 anni, disarmato, da parte di un poliziotto. Sembra di rivivere, ancora, le rivolte delle popolazioni afro-americane che punteggiano la storia americana, tutt’altro che eventi rari anche a più di mezzo secolo dalla fine della segregazione razziale. Miami e Crown Heights nel 1991, Los Angeles e New York nel 1992, St. Petersburg nel 1995, Cincinnati nel 2001, Toledo nel 2005, Oakland nel 2009 e adesso tocca a Ferguson. Quasi tutte queste insurrezioni hanno un tratto in comune: un poliziotto commette un abuso, o uccide un afro-americano e la comunità insorge, saccheggia, danneggia indifferentemente le proprietà di bianchi e neri, finché l’ordine non viene ripristinato. In tutti i casi, nessuno escluso, la popolazione afro-americana vive in condizioni di ghettizzazione ed è mediamente molto più povera e disoccupata del resto della cittadinanza.
La tentazione comune a tutti i media, soprattutto quelli europei, è di considerare questo fenomeno come una diretta conseguenza, o addirittura una continuazione con altri metodi, della segregazione razziale. I media più liberal americani, come lo Huffington Post e Slate, si affrettano a dire che il comune di Ferguson è a maggioranza nera, ma governato da bianchi, soprattutto da un sindaco conservatore. Il centro studi Brookings Institution ritiene che la violenza sia una conseguenza e non una causa delle misere condizioni della popolazione nera, una reazione ad una segregazione di fatto, anche se non più di diritto. Tuttavia, difficilmente troviamo delle caratteristiche che riconducono alla memoria della segregazione. Il governatore del Missouri, Jay Nixon, è un progressista democratico, cattolico, allineato alla politica del presidente Barack Obama, il primo presidente nero, figlio di un immigrato africano, esponente dell’ala sinistra del Partito Democratico. I Democratici erano il partito della segregazione. Ma lo erano più di mezzo secolo fa. Da Kennedy (primo presidente cattolico) in poi, sono sempre stati all’avanguardia nella lotta contro la segregazione. La cultura liberal, di cui Obama e Jay Nixon sono esponenti, si è plasmata anche nella lotta per l’emancipazione dei neri, uno dei suoi miti fondativi. È Nixon che ha coordinato l’azione di polizia finora, per cercare di gestire i disordini e ieri ha deciso di inviare la Guardia Nazionale. La cittadina di Ferguson è a maggioranza afro-americana (67%), ma ha eletto un sindaco bianco e Repubblicano, James Knowles III. Essendo stato eletto dal 49% dei locali, ha preso anche i voti dei neri, non solo della minoranza bianca (di origine tedesca e irlandese) che abita Ferguson. La città del Missouri era un sobborgo a stragrande maggioranza bianca fino a due decenni fa. Da quando è entrata in declino economico, ha iniziato a sostituire i bianchi con i neri: i primi sono emigrati, i secondi sono rimasti o sono immigrati. Non è dunque la crisi che ha creato discriminazione, ma è vero il contrario: gli afro-americani sono arrivati al seguito della crisi. Poveri da generazioni, non hanno mai trovato il loro momento di crescita economica, la loro presenza indica il tasso di depressione di un’area.
L’origine di questi disordini è, appunto, l’uccisione di Michael Brown. Non solo la stampa liberal, ma anche lo stesso governatore del Missouri, Jay Nixon, si sono detti oltraggiati dal comportamento della polizia. L’azione di contenimento dei disordini è stata inizialmente molto dura, condotta da poliziotti delle squadre d'assalto, in assetto anti-sommossa, dotati di mezzi blindati e fucili. Dopo i primi giorni, tuttavia, è stato lo stesso governatore a ordinare un cambio di rotta, inviando poliziotti equipaggiati alla leggera, della polizia stradale, comandati da un afro-americano (il capitano Ron Johnson), con regole di ingaggio molto più restrittive. Nonostante l’atteggiamento benevolo da parte delle autorità, i saccheggi si sono moltiplicati nel corso del fine settimana, con gravi danni alle proprietà. Un atteggiamento più permissivo ha dunque incoraggiato ulteriori scontri, invece che placare la rabbia dei quartieri afro-americani. Ad alimentare la rabbia, dunque, non è una reazione a una repressione, ma un odio accumulato in precedenza.
Per quanto riguarda l’indagine sull’accaduto, l’atteggiamento delle autorità, è stato molto parziale. A sfavore della polizia, non in sua difesa. E finora non ha aiutato a far luce sugli eventi. Finché il capo della polizia locale, Tom Jackson, ha mantenuto il riserbo sulle indagini, è stato accusato pubblicamente, da stampa e autorità, di scarsa trasparenza e volontà di insabbiamento. Pressato dai reporter, che hanno chiesto di implementare la legge sulla libertà di informazione, Jackson ha deciso di pubblicare il video del furto commesso da Michael Brown, l’atto che ha preceduto la sua uccisione. Nel video si vede un ragazzo, dalla statura imponente, che strattona un impiegato del mini-market derubato. Tutt’altro che l’immagine della vittima innocente. Il risultato è che lo stesso governatore Jay Nixon ha accusato il capo della polizia di Ferguson di voler infangare la memoria della vittima. Al coro di critiche si è unito anche Al Sharpton, storico leader della comunità afro-americana, che ha subito attaccato la polizia locale «Mai visto nulla di più offensivo, in vita mia, di un capo della polizia che rilascia il video di un giovane uomo, cercando di diffamarlo, prima ancora del suo funerale». Una prima testimonianza oculare parlava di “esecuzione”: il poliziotto avrebbe sparato su una vittima già immobilizzata e arresa. Un’altra testimonianza asseriva che l’agente avesse sparato a Brown alla schiena, mentre quest’ultimo stava scappando. Un’autopsia effettuata ieri, invece, ha trovato nel corpo di Brown sei proiettili, quattro sulle braccia e due alla testa, ma nessuno alle spalle. Questo potrebbe anche confermare la tesi della polizia: Brown avrebbe cercato di strappare la pistola al poliziotto (colpi alle braccia) e di aggredirlo (colpi alla testa). Però i colpi sarebbero stati sparati da una certa distanza e non a bruciapelo (niente polvere da sparo addosso al corpo della vittima) e non vi sarebbero tracce di lotta. Il caso, insomma, è tutt’altro che chiaro. Non si capisce e non si può ancora capire se si sia trattati di un abuso dell’agente, o se sia legittima difesa.
Il caso Michael Brown è tutt’altro che risolto, dunque, ma la popolazione afro-americana, i media della sinistra americana, il governatore del Missouri e lo stesso governo federale, sembrano già avere la loro verità in tasca. I community organizer di Ferguson, invece di convogliare la rabbia in protesta pacifica, lasciano che i rivoltosi sfascino negozi e lancino bombe molotov ai poliziotti. E intanto ci si prepara alle elezioni del prossimo novembre, dove la carta razziale sarà nuovamente giocata con profitto dai Democratici. Sembra di rivivere la storia di Trayvon Martin, ucciso da un vigilante ispanico due anni fa, nel 2012, l’anno delle presidenziali. All’inizio pareva solo un ragazzino, assassinato a freddo solo perché era nero (e portava il cappuccio da rapper). Poi il processo assolse il vigilante. Era legittima difesa: se il vigilante non avesse sparato, la vittima sarebbe stato lui. Intanto, però, nel 2012 la carta razziale è stata giocata bene. Molto bene, a giudicare dalla vittoria di Obama. Ma giocare sul colore della pelle, evidentemente, non giova all’integrazione. Soffiare sul fuoco dell’odio fra etnie non sta affatto portando la pace fra le comunità, nemmeno mezzo secolo dopo la fine della segregazione razziale.