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DISSACRAZIONE e RIPARAZIONE

Mi oppongo alla "cristianofobia"

La derisione è diventata un deplorevole sistema del giornalismo televisivo. Il sarcasmo è un mezzuccio dal quale dobbiamo difenderci.

Attualità 23_01_2012
"L'Uomo dei dolori", di Albrecht Dürer

 

Per gentile concessione, riproduciamo questo contributo di Jean Clair dal fasciolo di gennaio del periodico Il Giornale dell'Arte.
Jean Clair
(1940), già direttore del Museo Picasso di Parigi e Conservatore del Patrimonio di Francia, è dal 2008 membro dell'Accademia di Francia. Nel marzo 2011 è stato tra i relatori delle giornate del Cortile dei Gentili svoltesi su iniziativa del Cardinale Ravasi. Tra i suoi numerosi saggi, ricordiamo La crisi dei musei (2008) e L'inverno della cultura (2011) in cui denuncia l'inconsistenza dell'arte contemporanea ridotta a spettacolo vuoto e funereo.

L’opinione del filosofo francese Fabrice Hadjadj («ebreo di nome arabo e di confessione cattolica», come lui stesso si definisce) a proposito della «cristianofobia» («Le Figaro» del 26 novembre) ci lascia perplessi. Se vogliamo riassumere:

  • La cristianofobia è legittima quando viene da un non cristiano.
  • Un cristiano non può denunciare la cristianofobia senza correre il rischio che tale denuncia si ritorca contro la stessa arte cristiana.
  • Se la cristianofobia si esprime attraverso la figura del Cristo crocifisso, dovrei staccare dalle mie pareti quell’immagine che raffigura il «supplizio dei malfattori»?
  • Se il cristianesimo è vittima di una fobia speciale, è perchè disturba e persino inquieta. Non possiamo quindi provare alcun timore davanti alla cristianofobia perché questa conferma l’amore che la Chiesa porta anche ai propri nemici di oggi, che saranno i suoi amici di domani.
  • Infine, la cristianofobia rafforza la Chiesa: papa Leone Magno non predicava forse, nel V secolo, che «la Chiesa non è sminuita, ma al contrario accresciuta, dalle persecuzioni subite»?

Questi argomenti, simili, se non a un elogio, a una difesa della cristianofobia in un momento in cui le minoranze cristiane, dall’Egitto all’Indonesia, dalla Turchia al Kosovo, sono spesso perseguitate e i loro luoghi di culto distrutti, hanno qualcosa di urtante. Si può accettare il martirio senza averne il gusto, e ancor meno desiderarlo. Il sacrificio dell’Agnello non è riconducibile, perché «mistico», al massacro silenzioso dei fedeli. Il fascino del sacrificio mi pare stia più dalla parte di un Satana che vi spinge a gettarvi nel precipizio, che da quella di un Dio che ama gli esseri umani sino a morire per loro. Ma non soffermiamoci su queste dispute teologiche. Vorrei invece, come storico dell’arte, soffermarmi sul legame a cui rimanda il testo di Hadjadj, filosofo cristiano, tra l’arte e il sacro, tra immagine cultuale (pubblica) e immagine devozionale (privata). L’Uomo-Dio sottoposto al vile supplizio della crocifissione è stato al centro di quella che è stata definita la «disputa delle immagini». Per secoli e secoli a Bisanzio si è dibattuto se si dovesse rappresentare il Cristo oppure la sola croce, emblema aniconico. Eterno problema dell’opposizione tra «presenza» e «rappresentazione».

Problema che d’altronde sembra riproporsi nuovamente: le chiese cattoliche, come se fossero spaventate dallo spettacolo del supplizio, si vuotano dei loro crocifissi e si accontentano il più delle volte di due assi di legno nude. Quando l’immagine del Cristo fu finalmente accettata, rinacque il conflitto tra la rappresentazione di un’immagine gloriosa, il Pantocratore, o sofferente, il Crocifisso. Ora, non era la presenza di Dio che si adorava, ma la presenza dell’opera stessa permetteva di rappresentarsi Dio. A partire da quel momento, è apparsa quella che oggi chiamiamo «arte». Da quel momento in poi l’artista fu libero di rappresentare l’idea che si faceva, lui personalmente, della crocifissione.

L’immagine del Crocifisso ha invaso a poco a poco la nostra cultura, diventata un intreccio di arte e religione, e il nostro mondo quotidiano, dalla crocifissione di Picasso alle piccole croci d’argento che adornano il petto delle nostre star televisive. Questo vuol forse dire che una croce vale l’altra? Se insorgo contro la volgarità di «Golgotha Picnic» (lo spettacolo teatrale di Rodrigo García che ha provocato accese reazioni nel mondo cristiano), fino a invocarne l’interdizione, «quello che otterrei, alla fine, sarebbe l’interdizione del capolavoro di Dante, La Divina Commedia». Davvero? Per riecheggiare uno scandalo recente, se auspico che il «Piss Christ» di Andres Serrano non sia più esposto nel museo che lo ospita, dovrò staccare dai muri anche il Cristo di Rubens o quello di Mantegna? Vorrebbe dire che l’opera detta «d’arte» di un uomo chiamato Serrano e «artista» autoproclamato avrebbe lo stesso valore di quelle opere dall’iconografia lentamente elaborata nel corso dei secoli, da confraternite, congregazioni, concili, saggi, filosofi, santi e semplici devoti, e la cui autorità, per le società di credenti che le contemplano, è comparabile a quella delle leggi delle nostre società laiche?

Il cristianesimo è una religione nata nella storia (è questa addirittura la sua «originalità») e che ha una propria storia: appunto la storia delle rappresentazioni che si è fatta di Dio. Dire che è nella storia, vuol dire che è situata nel campo del variabile: variabilità dei valori, valutazione come evoluzione. È il problema del Bene e del Male, del Bello e del Brutto, e della loro scala. Fino all’estremo. Il culto del «Preziosissimo sangue», per esempio, nasce e si sviluppa in un dato luogo, l’Europa del Nord, e in un momento definito del tempo, il XIV e XV secolo, fino a culminare, in una sorta di eccitazione dionisiaca, nella concezione grandiosa di Bernini, dove il calice del sangue sacro si riversa in un vasto oceano. Che rapporto hanno tali realizzazioni visionarie con un crocifisso da bazar immerso in un vaso di urina, la cui visione mi è imposta dal museo pubblico che lo espone? Mi sarebbe proibito protestare contro un tale «capolavoro» dell’arte contemporanea, con il pretesto che la sua interdizione minaccerebbe tutte le immagini della crocifissione?

Questa «imbarazzante figura di un uomo in una posizione umiliante», dice Hadjadji della crocifissione, di cui non si saprebbe più «che cosa fare», fino a chiedersi se «Dio non sia cristianofobo», è tuttavia l’immagine intorno alla quale ruota tutta la cristianità.
Il passaggio storico dall’immagine di culto all’immagine di pietà o di devozione si distingue più chiaramente nella visione empatica degli ultimi momenti del Cristo propria dell’uomo tardomedievale, che inventa tre figure «fisse» in un naturalismo ottico spinto all’estremo. La prima è l’«Ostentatio Christi», la presentazione del Cristo al popolo. La seconda è la «Derisio»: l’esposizione del Cristo allo scherno dei soldati, con la scena degli oltraggi e la corona di spine. Infine, terza immagine, l’«Ecce Homo» proferito da Ponzio Pilato quando mostra agli Ebrei riuniti la figura del loro re vestito di un mantello di porpora e con una canna come scettro.

Dopo la crocifissione, la pietà popolare inventò la figura dell’Uomo dei dolori, seduto, prostrato, grondante sangue e con il fianco trafitto dalla lancia di Longino. Un nuovo Ecce Homo, ma uomo questa volta della pietà, sofferente, immagine di una «passione perpetua» che dura tanto quanto i peccati degli uomini, fino al Giudizio universale. Alla verità semplicemente umana della parola di Pilato «Ecco l’uomo», si aggiunge la rivelazione trascendente: «Ecco Dio», di cui l’ostensione dell’ostia perpetua la memoria.

Si tratta di un’iconografia di grande ricchezza e prodigiosa complessità, che unisce sapere teologico e devozione popolare, rigore delle Scritture e invenzioni della pietà contemplativa dei credenti. Iconografia che ha nutrito l’arte tutta intera, da Giotto a Dürer ad Antonello da Messina, quello stesso pittore la cui immagine del Cristo il regista teatrale Romeo Castellucci riutilizza come sfondo della scena. Immagini che, secolo dopo secolo, hanno forgiato la sensibilità di quella che Henri Focillon aveva ancora il diritto di chiamare «l’arte dell’Occidente».

Di quella ricchezza oggi non sembra rimanere che il registro della «Derisio». Sarcasmo, nel senso proprio del termine, e derisione sono diventati i caratteri essenziali del rapporto dell’uomo moderno  con il prossimo. Nel peggior dei casi, sono le caricature grossolane del profeta di una religione prossima, o le stravaganze di pretesi artisti, come Rodrigo García o Andres Serrano.
Ma in questo inizio del XXI secolo la derisione, subdolamente diffusa al dominio quotidiano, infiltrata nella sensibilità di ciascuno, diventa ormai il tratto principale dei rapporti umani, e specialmente in quelle trasmissioni nelle quali si vedono uomini politici, filosofi, scrittori, apparire spaventati, sconcertati, umiliati davanti ai giornalisti dello show televisivo. Se qualcuno riesce a cavarsela con umorismo, quanti altri escono umiliati da quell’esibizione avvilente...

La derisione regna ormai, nell’attesa del prossimo episodio, che sarà, lo temo, così poco piacevole come quello che rappresentavano una volta i grandi pittori. È dunque far prova di integralismo, oppure di integrità? Di voler reagire a quelle esibizioni che sono le forme moderne della «ostentatio» e della «derisio»? Tutto vale tutto? Tutto si equivale? Come il Bello e il Brutto, il Male non esisterebbe più perché nutrirebbe il Bene? E io dovrei ignorarlo per lasciare la cristianofobia occupare il terreno, alla grazia di Dio?

Dicevamo cristianofobia? A proposito della nuova traduzione dell’Inferno di Dante fatta da Jacqueline Risset, Edmond Jabès si interrogava, nel 1992, sul senso del grande poema: «Come l’Inferno e il Paradiso, scriveva, la bruttezza e la bellezza esistono, il male e il bene esistono». Dobbiamo dubitare di Edmond Jabès?

© Il Giornale dell’Arte n. 316, gennaio 2012, p. 5