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LAVORO

Meno giovani, più disoccupati

Aumenta la disoccupazione giovanile, ma i giovani diminuiscono. Non dovrebbe essere "meno persone, più ricchezza disponibile", come dicono?

Editoriali 09_03_2012
Cercasi lavoro
Ormai non passa settimana che non siamo raggiunti da nuovi, allarmanti, dati sulla disoccupazione giovanile.  Alcuni giorni fa il XIV Rapporto Almalaurea, riferito ai laureati, mostrava come la disoccupazione dei laureati triennali sia passata dal 16% del 2009 al 19% del 2010, mentre quella dei laureati specialistici è passata nello stesso periodo dal 18 al 20%. In febbraio l’Istat ci aveva invece detto che nei primi tre trimestri del 2011 la situazione si era ulteriormente aggravata e nella fascia di età tra i 18 e i 29 anni si sono persi 80mila posti di lavoro. Sempre in questa fascia di età il tasso di disoccupazione era nel 2007 del 20,3%, nel 2010 era già salita al 28%, nel gennaio 2012 era schizzata al 31%

Dati già di per sé allarmanti, ma che lo diventano ancora di più se messi a confronto con i dati sulla disoccupazione in generale il cui tasso è al 9,2%.

Eppure la popolazione giovanile in Italia è in forte calo: in 15 anni la popolazione al di sotto dei 25 anni di età è scesa del 25%, e noi siamo il paese europeo con la minore percentuale di giovani al di sotto dei 25 anni.

Si tratta di una situazione apparentemente paradossale: i giovani diminuiscono eppure aumenta la disoccupazione.

E’ paradossale perché da decenni siamo bombardati da una propaganda che dice sostanzialmente “meno siamo, meglio stiamo”. Gli allarmi sulla sovrappopolazione non sono ancora cessati, malgrado la smentita dei fatti, in compenso oggi certe paure sulla popolazione sono rafforzate dall’ideologia ecologista che ci spinge a pensare che con meno popolazione ci siano più risorse a disposizione per tutti. Siamo dunque portati a pensare – e la cosa sembrerebbe avere anche una certa logica – che con meno persone a cercare lavoro ci sarebbero più opportunità.

Ma la realtà, ancora una volta, si premura di smentire tutte le ideologie, compresa quella degli anti-natalisti, definiti anche neo-malthusiani, dal nome del reverendo Malthus che alla fine del ‘700 per primo teorizzò che la popolazione sarebbe cresciuta più in fretta della disponibilità di risorse. Ma in realtà la vita non funziona così e – per tornare al nostro caso – se non si mettono al mondo figli, se la popolazione diminuisce, aumenta la povertà e non la ricchezza.

Perché? I motivi sono diversi e non è qui possibile elencarli tutti, ma c’è una questione di fondo che va richiamata.

L’economia cresce grazie agli investimenti in un’attività produttiva che, generando profitti, permette ulteriori investimenti che si traducono in maggiori posti di lavoro e maggiori opportunità. Ma l’investimento è una scommessa positiva sul futuro, è una fiducia nel futuro, è un’apertura alla vita, investe chi crede che la vita abbia un valore che va oltre la propria esistenza. In Italia questo ha un significato immediatamente comprensibile. L’economia italiana infatti, è fondata sulla piccola industria, un imprenditore e un numero limitato di dipendenti. Normalmente l’imprenditore investe i suoi profitti quando ha dei figli che erediteranno l’azienda e a loro volta la svilupperanno, creando nuovi posti di lavoro, maggiore ricchezza, e ancora nuovi investimenti il cui frutto sarà goduto e sviluppato dai propri figli e così via. Anche quelle che oggi sono le grandi industrie italiane sono nate così. Ma se lo stesso imprenditore non avesse figli, perché dovrebbe investire il proprio profitto in un ampliamento dell’azienda? Non avendo eredi, e quindi neanche stretti e fidati collaboratori, tenderà a usare quel profitto in consumi per sé: più macchine, case nei luoghi di vacanza, gioco, e così via. In ogni caso la sua azienda non si svilupperebbe più e perderebbe quote importanti sul mercato perché diminuirebbe sicuramente anche l’innovazione tecnologica (essenziale per rimanere competitivi). Risultato: stagnazione e perdita di posti di lavoro. E’ quello che sta succedendo in Italia.

Ma c’è un’altra questione fondamentale che spiega il paradosso di un aumento della disoccupazione con la diminuzione della popolazione. L’idea che un minor numero di persone garantisca una maggiore ricchezza e una maggiore disponibilità di risorse si basa su una concezione di risorsa che sarebbe un dato della natura, di cui quindi possiamo conoscere la quantità, data e immutabile.

In realtà non è così: ciò che rende la risorsa tale è l’ingegno e la creatività dell’uomo che usa degli elementi della natura per soddisfare i propri bisogni. In questo modo le risorse tendono a moltiplicarsi e differenziarsi sulla spinta dei bisogni della popolazione. Questo è quello che è sempre avvenuto nella storia. Il petrolio è una risorsa oggi, non lo era affatto due secoli fa. Il cotone è bello, ma non sarebbe una risorsa se degli uomini non avessero imparato ad usarlo per farci dei tessuti. Questo vale anche per i processi produttivi: sono gli uomini i protagonisti delle innovazioni che permettono dei progressi importanti e maggiori opportunità per tutti.

La principale risorsa è dunque l’uomo. Ecco perché diminuendo gli uomini si perdono posti di lavoro e si diventa tutti più poveri.