Medio Oriente, un anno vissuto "pericolosamente"
Non c'è solo l’annuncio di Trump di spostare la sede dell’ambasciata del suo Paese da Tel Aviv a Gerusalemme “capitale d’Israele”. Ma tutto il 2017 è stato percorso da tensioni causate dal succedersi di anniversari ostili ai palestinesi e simbolici per Israele, ma anche dalle divisioni in seno all'Onu.
In dicembre abbiamo visto il conflitto israelo-palestinese tornare prepotentemente alla ribalta internazionale per l’annuncio del presidente americano Donald Trump di spostare la sede dell’ambasciata del suo paese da Tel Aviv a Gerusalemme “capitale d’Israele”. Una decisione e un riconoscimento considerati così ostili dall’Autorità Nazionale Palestinese da farsi promotrice di una nuova ondata di proteste, violente in parecchie località della Cisgiordania e di un voto di condanna dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Ma tutto l’anno era trascorso in uno stato di accentuate tensioni a causa soprattutto del succedersi di anniversari di eventi di storia recente che se venivano evocati ed esaltati in Israele avevano impegnato i palestinesi in una campagna di negazione, interpretazione o denigrazione a tutti i livelli, e in particolare in campo scolastico e politico interno e in quello diplomatico esterno per l’incidenza nei rapporti con singoli Stati, specie la Gran Bretagna, e multilaterali.
Il colpo più duro è stato inferto al presidente palestinese Abu Mazen dal fallimento della sua ostinata richiesta al premier britannico Theresa May di sconfessare, cancellare, comunque rinnegare la “Dichiarazione Balfour” del 2 novembre 1917 da lui considerata la base fondante dell’attuale Stato ebraico. Quel giorno di cent’anni fa il ministro degli Esteri Arthur Balfour aveva fatto questa solenne promessa in una lettera a lord Walter Rotschild, l’esponente della comunità ebraica nel Regno Unito: «Il governo di Sua Maestà vede con favore l'istituzione (establishment) in Palestina di un focolare nazionale (a national home) per il popolo ebraico, e userà i suoi migliori sforzi per facilitare l'ottenimento di questo obiettivo». La May, due mesi orsono ha affermato, infastidita dalle pressioni e in tono quasi sprezzante: «Siamo fieri del ruolo che abbiamo giocato nella creazione dello Stato d'Israele e certamente celebriamo con orgoglio questo centenario».
All’epoca della “Dichiarazione Balfour” la regione era dominata, e da alcuni secoli, dall’impero turco-ottomano. Non vi era mai esistito né esisteva uno stato di Palestina. Si delineava, dopo 1800 anni di esilio, il ritorno degli ebrei nella loro patria mai dimenticata anche in tempi tragici, di persecuzioni e progrom, quando non avevano smesso di pregare volti a Gerusalemme: «Se ti dimentico. Così mi dimentichi la mia mano destra». Quello stesso anno tre battaglioni di soldati ebrei, componenti la Legione ebraica, venivano incorporati nell’esercito inglese che comandato dal generale Allemby liberò Gerusalemme. Due anni dopo, nel gennaio 1919, ai margini della conferenza di pace di Parigi, la “Dichiarazione Balfour” fu confermata dalle intese tra il leader nazionalista ebreo Chaim Weizman e l’emiro Feisal, figlio del re Hussein dell’Heggiaz; nel 1920 dalla Conferenza internazionale di Sanremo e ancora nel 1922 dalla Società delle Nazioni nel prologo del conferimento del Mandato sulla Palestina al Regno Unito.
Era mai possibile che Theresa May negasse questi eventi storici, come gli chiedeva con insistenza Abu Mazen? A questi importa demolire l’esistenza dello Stato d’Israele, inaccettabile - non solo per i palestinesi ma per tutto il mondo musulmano – perché insiste sul territorio divenuto “musulmano per sempre” dal 636 dopo Cristo, ovvero dalla conquista del califfo musulmano Omar. Per gli ebrei Gerusalemme è la capitale del loro Stato dagli anni Mille avanti Cristo, da quando Davide vi trasferì l’Arca dell’Alleanza e ne fece la capitale del suo regno .
In tutto quest’anno la storia è stata rinvangata dalle parti in conflitto non solo per il centenario della “Balfour” ma anche per altri anniversari, come i 120 anni del congresso di Basilea (fine settembre 1897) che su iniziativa di Theodor Herzl organizzò il ritorno, preconizzato da metà Ottocento, del popolo ebraico nella sua patrla , stabilì il suo vessillo e l’inno nazionale. Fondò l’Organizzazione Sionista Mondiale, promosse la fondazione della Banca Nazionale ebraica e del Fondo nazionale Keren Kayemet per l’acquisto di terre in Palestina dove intanto erano fondate presso Jaffa cittadine ( Petach Tikvah ) e scuole agrarie (la Mikvé Israel).
Ma ad acuire astio, odio, vendetta dei palestinesi per gli israeliani è stata la rievocazione di due altri anniversari. Innanzi tutto i settant’anni ( 29 novembre 1947) della Risoluzione 181 delle Nazioni Unite che con 33 sì, 13 no ( stati arabi e musulmani, più Cuba, Egitto, Grecia e India) e 10 astensioni (fra cui Regno Unito) decise, alla fine del Mandato britannico sulla Palestina, la spartizione del territorio in due Stati, uno arabo ed uno ebraico, e la creazione, come corpus separatum sottratto alla sovranità di entrambi e amministrato dalla comunità internazionale, del territorio di Gerusalemme. Così una colta proclamato, il 15 maggio 1948, lo Stato d’Israele, i paesi arabi vicini gli mossero guerra ma ne uscirono sconfitti, Gli armistizi ( il primo con l’Egitto firmato il 24 febbraio 1949 a Rodi) sancirono il cessate il fuoco su linee di demarcazione che oggi i palestinesi definiscono unilateralmente “confini” dello Stato ebraico. Escludono la parte orientale di Gerusalemme che non fu occupata.
L’altro anniversario, celebrato dagli israeliani ma detestato dai palestinesi e dal mondo islamico, è stato quello dei cinquant’anni della sconfitta subita dai paesi arabi nella “Guerra dei Sei giorni” del 1967 (così nota per la sua durata). Promossa per rivincita il 10 maggio con il blocco egiziano degli Stretti di Tiran, sul Mar Rosso, portò invece alla perdita giordana di Gerusalemme e di altre parti della Giudea e Samaria, all’occupazione della penisola egiziana del Sinai e delle alture siriane del Golan. Un’altra nabka, un’altra catastrofe. Confermata dalla “Guerra del Kippur” mossa sempre dagli Stati arabi contro Israele nel giorno, il 6 ottobre 1973, in cui gli ebrei non pensano per nulla a combattere, o a difendersi, ma a digiunare e a pregare Dio invocando il perdono dei peccati. Una terza guerra persa.
Le ricorrenze anniversarie hanno dato ben poco spazio all’evocazione degli sforzi di pace intrapresi dalla comunità internazionale, dagli Accordi di Oslo del 1993 in poi, con il coinvolgimento particolare degli Stati Uniti, per tutto il primo decennio del Duemila. Se gli israeliani hanno certo messo in rilievo le concessioni fatte nei negoziati, il ritiro di parte dei territori occupati, i trattati di pace con Egitto e Giordania, i palestinesi hanno invece esaltato le loro “ intifade” e “i martiri” , ovvero la resistenza all’oppressione militare israeliana , la lotta per preservare il carattere soltanto musulmano di Gerusalemme, il sacrificio di vite umane per recuperare la sovranità sulla loro terra, violata dal muro di separazione e dagli insediamenti dei coloni nemici.
Grande è stata l’enfasi con cui, sul terreno della esagitazione degli animi, della protesta e degli scontri, e nel contesto diplomatico, l’Autorità Nazionale Palestinese ha osteggiato la decisione del presidente statunitense Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele. E scontato il successo da essa conseguito alle Nazioni Unite, da anni ormai apertamente ostili a Israele (anche in seno alle sue agenzie, come l’Unesco e il Comitato per i diritti dell’uomo) tanto che alla condanna del Consiglio di Sicurezza, per 14 voti contro uno, è seguita quella dell’Assemblea Generale. Ma queste votazioni, oltre che ad esacerbare i contrasti fra le parti e ad allontanarle dalla indispensabile ripresa del dialogo, hanno visto insieme alla persistenza delle divisioni nella comunità internazionale un pessimo servizio dei mass media al dovere di una corretta informazione.
Emblematico il risultato della votazione dell’Assemblea Generale convocata per la decima sessione di emergenza nella storia dell’ONU (cinque delle quali su Israele), svoltasi il 21 dicembre contro l’annunciato spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Giornali stampati e televisivi hanno parlato di un voto unanime o quasi, quando in effetti un terzo degli aventi diritto ha dissentito. Dei 193 membri, infatti, 21 non hanno voluto partecipare alla votazione, 35 si sono astenuti, 128 hanno votato sì e 9 no. Dunque 65 paesi hanno evitato di votare contro Stati Uniti e Israele in questa che è stata la 21.ma risoluzione dell’anno contro lo Stato ebraico. Silenzio poi sulle divergenze in seno all’Unione Europea: dei 28 paesi membri, uno non ha votato – la Lituania – e ben cinque si sono astenuti: Repubblica ceca, Ungheria, Lettonia, Polonia e Romania.