Medico a domicilio, l'esperimento "umano" per i pazienti oncologici
Il progetto di assistenza domiciliare dell'Oncologia di Cremona per i malati positivi al Covid: dalla diagnosi alla cura ricevono affetto e farmaci tra le mura domestiche. Il primario Rodolfo Passalacqua illustra alla Nuova BQ l'esperimento per tenere lontani dall'ospedale gli assistiti più fragili. «Tutto è nato con la morte di una paziente che improvvisamente si è trovata da sola ad affrontare il virus...».
Per non morire soli o anche solo per avere una mano da stringere durante il contagio. La pandemia costringe a rivedere le modalità di lavoro. Lo smart working è ormai diventato realtà per gran parte della popolazione. Ma anche i medici ospedalieri possono rivedere alcune delle loro modalità portandosi loro stessi direttamente a casa dei pazienti: perché a casa si guarisce meglio soprattutto in tempi come questi di epidemia in cui gli ospedali sono sovraccarichi.
A Cremona il progetto è partito in via sperimentale da un’idea del reparto di oncologia di uno degli ospedali più sotto pressione nel Paese.
Rodolfo Passalacqua è primario di oncologia nel nosocomio lombardo e spiega alla Nuova BQ il progetto avviato lunedì scorso e che coinvolge i pazienti oncologici Covid positivi. Per loro si cercherà nel limite del possibile di non ospedalizzarli, sapendo che sono loro, indipendentemente dall’età, tra le vittime più fragili del morbo proprio a causa della comorbilità che spesso può rivelarsi letale.
Professore, per i pazienti con tumori attivi il rischio è maggiore?
Sì, la patologia oncologica che colpisce pazienti anche relativamente giovani costringe a mettere in moto un complesso meccanismo di scelta rispetto all’aspettativa di vita e si rischia di avere pazienti che non vengono portati in rianimazione.
Dovete decidere voi?
No e spero di non essere mai chiamato a fare questo tipo di scelte. In base alle comorbilità decidono i colleghi della rianimazione che sono più abituati a prendere queste decisioni.
Non è semplice…
No, non è affatto semplice. E’ un dramma e sono valutazioni che investono la sfera etica. Ma la rianimazione è costantemente assediata.
A questo punto per i malati oncologici covid positivi che scenario si apre?
Abbiamo provato a invertire la logica: non ospedalizzarli, ma provare a curarli a domicilio.
Con quale scopo?
Duplice: non pesare sugli altri reparti che sono stati trasformati in covid center con pazienti molto impegnativi e permettere ai pazienti di avere quel calore umano dei famigliari che in ospedale non potrebbero trovare dato che il loro ingresso è precluso.
Da che cosa nasce?
Non vorrei impietosire, ma è stato il caso una nostra paziente morta recentemente.
Che cosa è successo?
Aveva un tumore del polmone curato con terapia orale, stava bene. Abbiamo capito che aveva preso il Coronavirus e l’abbiamo ricoverata in un reparto Covid. Da quel momento è rimasta da sola con un respiratore attaccato senza poter vedere nessuna persona cara, nessuno che le potesse dare un conforto. E’ morta sola.
Già, anche il cappellano del vostro ospedale ci ha confermato questa triste realtà…
E’ inumano se ci pensa, per la povera persona e anche per i famigliari a casa che improvvisamente non l’hanno più vista. Questo è un lutto molto difficile da elaborare.
Che cosa avete deciso?
Questa cosa ci ha indotto a muoverci in un certo modo, così abbiamo messo in piedi un progetto di assistenza domiciliare. E’ stato il caso di questa paziente a convincerci.
A chi è rivolto?
Ai pazienti oncologici che contraggono il Covid, ma non hanno bisogno di una grossa assistenza respiratoria. Preferiamo tenerli a casa e andare noi da loro.
Come sta andando il progetto?
Abbiamo un team di medici che esce tutte le mattine, c’è un elenco giornaliero di persone da andare a trovare, un telefono dedicato: 333 313 2114. Finora sono uscite la dott.ssa Negri Federica e l’infermiera Roberta Marchi. Ma altri medici e infermieri sono coinvolti. Riusciamo a vedere 6 persone al giorno oltre l’assistenza telefonica con il numero di telefono dedicato.
Quali sono le cure che fanno a casa e che avrebbero fatto in ospedale?
Non solo le cure, pensi banalmente alla diagnosi. Se il paziente oncologico chiama il curante dicendo di avere la febbre viene indirizzato in ospedale. Ecco, noi dobbiamo evitare che questi pazienti vengano in ospedale perché se vengono da noi è problematico per loro e per lo stesso personale medico.
Che succede una volta rimasti a casa?
Andiamo noi, facciamo il tampone a loro e l’ospedale ci ha autorizzato a farlo anche ai famigliari. Se positivi diamo un depliant informativo con tutte le informazioni del caso e somministriamo subito la terapia antivirale concordata con i colleghi infettivologi.
E per le terapie oncologiche?
Le sospendiamo perché non sappiamo ancora quali sono le interazioni degli antitumorali con gli antivirali specifici e poi non vogliamo che i portatori di Covid si immunodeprimano.
Il farmaco qual è?
Per i sintomatici cominciamo con clorochina e antibiotico ed eventualmente antivirali, se non hanno sintomi e stanno bene, li teniamo monitorati. Però intanto è a casa.
Che benefici porta questo approccio?
Dal punto vista relazionale e umano non c’è paragone. E’ sicuramente in una situazione di maggiore sicurezza per lui e di conforto per i famigliari rispetto alla soluzione ospedaliera.
E i pazienti come la affrontano?
La maggior parte dei pazienti non vogliono andare in ospedale se non sono costretti a farlo perché non respirano. La risposta è molto positiva da parte loro, tutti abbiamo bisogno di affetti e di competenza scientifica. In questo modo assicuriamo entrambe. Il progetto sta riscuotendo interesse anche nel territorio. L’associazione di Cremona con la quale collaboriamo da 20 anni che si chiama Medea (Medicina e Arte) ci sta supportando dal punto di vista economico per le spese extra cliniche come ad esempio il materiale informativo e la benzina per gli spostamenti. Qualche giorno fa ci hanno comunicato un finanziamento da parte dell’associazione “Uniti per la Provincia di Cremona” molto importante in questa realtà.
E dal punto di vista clinico?
Dipende tutto dal paziente e dal suo rispetto della quarantena, ma noi puntiamo sulla presenza di un caregiver che sia affidabile.
Come hanno reagito i medici curanti?
Sono entusiasti perché collaboriamo e andiamo ad alleggerire il loro lavoro.
E i suoi medici?
All’inizio alcuni scettici, altri più convinti, ma è naturale come per tutte le scommesse. Ora sono tutti molto ben disposti ed entusiasti.
Anche questo tipo di assistenza domiciliare rientra nella cosiddetta telemedicina?
In un certo senso sì. L’assistenza a distanza umanizza entrambi: pazienti e medici. E poi l’oncologia si sta evolvendo: molte terapie sono orali quindi a volte non c’è bisogno che il paziente venga in reparto a prendere il farmaco. Ma questo deve avvenire a una condizione.
Quale?
Che il paziente si impegni a riportarci fedelmente i suoi sintomi utilizzando le scale di autodiagnosi apposite (che si chiamano Patient-Reported Outcomes – PRO) e che sappia minimamente utilizzare un tablet o un telefono.
Se ripensa a quella paziente in rianimazione?
Se questo progetto fosse in grado di salvare tanti pazienti il suo sacrificio non sarà stato invano.