Media di tutto il mondo unitevi. Contro Trump
Il mondo dei media si ritrova unito almeno su un punto: l’odio nei confronti di Donald Trump. Un mondo che sta condizionando l’opinione pubblica più di ogni altro. Lo dimostra anche il caso New York Times, con le dimissioni di un caporedattore reo di aver ospitato un parere favorevole al presidente.
Il mondo si ritrova unito almeno su un punto: l’odio nei confronti di Donald Trump. Per “mondo” si intende il mondo mediatico, quello che raccoglie, analizza ed esprime notizie e opinioni, condizionando l’opinione pubblica più di ogni altro. È obiettivamente molto difficile trovare un quotidiano serio e dotato di una solida reputazione schierato dalla parte del presidente americano. E il meccanismo di selezione delle notizie e delle opinioni sta diventando sempre più rigoroso: se dai ragione a Trump, perdi il lavoro. L’esempio più recente ed eclatante è costituito dalle dimissioni, di fatto imposte, di James Bannet dal New York Times, neppure colpevole di aver scritto personalmente un articolo a favore del presidente, ma di aver ospitato, da caporedattore della sezione delle opinioni, un parere favorevole, espresso dal senatore repubblicano Tom Cotton.
La settimana scorsa, il New York Times aveva chiesto a Cotton di scrivere un suo punto di vista sull’Insurrection Act, la legge che consente di impiegare l’esercito per sedare una rivolta interna. Il senatore repubblicano ha scritto a favore dell’applicazione dell’Insurrection Act, che era appena stato invocato da Trump. La sua pubblicazione ha provocato una vera e propria insurrezione dei giornalisti e dipendenti del quotidiano, molti dei quali hanno indetto uno sciopero. La giornalista premio Pulitzer Nikole Hannah Jones ha scritto sul suo profilo Twitter: “Da donna nera e da giornalista, mi vergogno di questa pubblicazione”. Il quotidiano ha cercato, in un primo momento, di difendersi, affermando che la politica editoriale della colonna delle opinioni fosse anche quello di ospitare il parere di minoranza (rispetto alla linea editoriale). Poi ha cambiato linea, affermando che l’articolo non rispettasse gli standard editoriali. Così il caporedattore della sezione opinioni, James Bennet (in carica dal 2016) ha rassegnato le dimissioni e il suo vice è stato trasferito alla sezione cronaca.
Tom Cotton, personalmente, ha dichiarato di essere stato frainteso dalla redazione del New York Times, che parla del suo articolo come di una invocazione dell’esercito per reprimere la protesta. “Ho chiesto l’uso della forza militare come sostegno, solo se la polizia fosse stata saturata, per fermare i disordini, non per usarlo contro la protesta”, ha dichiarato il senatore, rispondendo alle dichiarazioni del grande quotidiano. Mentre Bennet, presentando le sue dimissioni, ha affermato di non aver controllato il pezzo, il suo autore, Cotton, ha descritto alla rivista National Review come era avvenuta la sua stesura: ben tre bozze mandate una dietro l’altra alla redazione e corrette a seconda delle richieste di verifica. Nelle prime due bozze la redazione del New York Times ha chiesto precisazioni di stile e di chiarezza, nella terza una maggior verifica dei fatti. Il processo è durato due giorni, lunedì e martedì della settimana scorsa, il pezzo è stato infine approvato il mercoledì mattina. Non si trattava, dunque, di un commento improvvisato e rimosso perché conteneva “bufale”, sfuggite al controllo redazionale, si trattava di un articolo a lungo controllato e corretto. La sua rimozione sembra, a maggior ragione, un atto puramente politico.
La censura nei confronti del presidente e dei pareri a lui favorevoli pare ormai riguardare tutti i media e i social media. Questi ultimi, ad esempio, stanno dando un giro di vite molto visibile, con Twitter che ha rimosso un commento dello stesso Trump e ne ha ritenuto “fuorviante” (con tanto di rimando ad approfondimenti sulla Cnn) un altro. Oscurare un presidente, da parte di un grande social media, è una novità assoluta nel dibattito democratico. Poi, in compenso, ci sono frasi e ragionamenti attribuiti al presidente americano, ma mai pronunciati, o i volutamente fraintesi. Solo per citare casi di questi ultimi tre mesi, Trump non ha mai suggerito di “iniettare disinfettanti” o “esporsi ai raggi UV” per curarsi dal Covid-19, eppure lo troverete scritto dappertutto. La battaglia sull’idrossiclorochina è iniziata quando è stata citata da Trump come cura promettente e subito dopo è entrata nel mirino di medici e ricercatori. Gli Usa non sono il Paese più colpito dal Covid per colpa della mancata prevenzione di Trump, come si legge pressoché ovunque. Al contrario, in rapporto alla popolazione, gli Usa sono molto meno coinvolti dall’epidemia rispetto all’Italia e alla maggior parte dei Paesi europei occidentali e la maggior concentrazione di vittime è nel solo Stato di New York, guidato dal governatore democratico Andrew Cuomo… che invece è presentato come il vero eroe della lotta all’epidemia. Ce n’è abbastanza per definire Trump la maggior vittima delle bufale, anche se i giornalisti lo accusano di essere un mentitore seriale.
La faziosità dei media contro Trump non è solo un’impressione di parte. Almeno un centro studi ha provato a quantificarla: il Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy di Harvard, nel 2017 aveva analizzato l’informazione dei 10 principali media statunitensi nei primi 100 giorni di amministrazione Trump e aveva trovato che il presidente fosse molto più sovra-esposto rispetto ai predecessori e il 98% dei servizi fosse da considerarsi “ostile” nei suoi confronti. Il novantotto per cento. Secondo questo studio, il rapporto fra media e Trump si è incrinato nel tempo. Ma almeno due casi dimostrano che vi fosse odio preventivo. Lo Huffington Post aveva relegato la campagna elettorale di Trump nella sezione “spettacoli” “Il motivo è semplice: la campagna di Trump è solo uno spettacolo. Noi non abboccheremo. Se siete interessati a quel che The Donald avrà da dire, lo troverete assieme ai nostri articoli sulle Kardashian e The Bachelor”. Per il New York Times, giustappunto, durante la campagna elettorale, Trump era “un essere umano ripugnante”. Lo scriveva nero su bianco l’editorialista Thomas Friedman, che tirava in ballo anche la famiglia dell’allora candidato presidente: “i figli di Trump dovrebbero vergognarsi del padre”. E concludeva con l’esortazione: “gente come te, non si faccia più vedere”.
Questi pareri sono ovviamente diffusi a cascata dai media americani più autorevoli a quelli stranieri, attraverso i loro corrispondenti. Giovanna Botteri, corrispondente Rai negli Usa all’epoca delle elezioni del 2016, dopo la vittoria di Trump commentava costernata: “Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta e unita contro un candidato... che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana?” Chiaro il concetto? Non era una battaglia fra un candidato repubblicano e uno democratico, ma fra “noi giornalisti” e il candidato repubblicano. Mai nessuno è stato così esplicito, ma lo sfogo della Botteri riflette una realtà di fatto. E forse è proprio questa la vera emergenza democratica.