Manifesti Pro Vita, quando la censura è ideologica
Il Tar dà ragione al Comune di Roma e vieta l’affissione di alcuni manifesti di Pro Vita con l’immagine di un bambino in grembo e scritte che veicolano verità biologiche. Lo Iap richiama la stessa associazione per la sua campagna contro l’eutanasia. Intanto in Italia molti altri manifesti, sebbene osceni, vengono consentiti. Due pesi e due misure, frutto del politicamente corretto.
In Italia la libertà d’espressione sta diventando un problema, specie se questa libertà va a cozzare con i nuovi diktat del politicamente corretto. Prendiamo il caso dei manifesti, siano essi pubblicitari o volti a sensibilizzare su un determinato tema, e in particolare due decisioni che hanno interessato negli ultimi giorni Pro Vita & Famiglia, non nuova in quanto a censure subite.
Partiamo dal primo caso. L’associazione ha annunciato che presenterà ricorso contro la sentenza del Tar del Lazio (pubblicata il 5 novembre), che ha dato ragione al Comune di Roma riguardo al divieto di affiggere i manifesti che ritraevano l’immagine di un bambino in grembo a 11 settimane, “Michelino”, com’è stato chiamato. La vicenda va avanti dalla primavera 2018 quando Pro Vita, con regolare permesso dell’ente concessionario, aveva affisso, in occasione del 40° anniversario della legge 194, un maxi manifesto, poi fatto rimuovere dalla giunta Raggi, che aveva inoltre vietato l’affissione di altri 500 manifesti di minori dimensioni. Per il Comune quei manifesti violavano l’articolo 12 bis del regolamento comunale sulla pubblicità, secondo cui «è altresì vietata l’esposizione pubblicitaria il cui contenuto sia lesivo del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili, politici…».
Pro Vita aveva presentato ricorso denunciando la violazione dell’articolo 21 della Costituzione, nonché di altre norme costituzionali e ordinarie, ma il Tar ha appoggiato appunto il ragionamento del Comune, definendolo «lineare», e ritenendo in sostanza che i manifesti superassero la «normale continenza espressiva» e i «limiti di violenza semantica e di smodato impatto emotivo».
Eppure, le scritte che accompagnano la gigantografia di “Michelino” sono semplici verità biologiche, riguardanti il normale sviluppo di un bambino. «Tu eri così a 11 settimane…», «tutti i tuoi organi erano presenti», «il tuo cuore batteva già dalla terza settimana dopo il concepimento», «già ti succhiavi il pollice», «e ora sei qui perché tua mamma non ti ha abortito». Dove sarebbe la «violenza semantica» di cui parlano i giudici? Il problema è che ricordare l’ovvio - qui, che l’aborto comporta la morte di un essere umano - e cercare così di risvegliare le coscienze è considerato uno scandalo da una società che per altro verso non si scandalizza più di nulla. Basta fermarsi un attimo a pensare quanti e quali messaggi e immagini vengano diffusi oggi, con l’autorizzazione dei pubblici poteri.
Come ha detto alla Nuova Bussola Tony Brandi, presidente di Pro Vita, «è tragicomico quello che è successo con questi manifesti. Da un lato abbiamo una società che attraverso la televisione, i media, la pubblicità ci presenta messaggi quasi pornografici o che invitano a fare uso di marijuana. In questa società ipersessualizzata tutto è permesso eccetto mostrare come eravamo noi tutti nella pancia della mamma all’età di 11 settimane». Dopo aver valutato i costi legali, molto alti per un appello al Consiglio di Stato, l’associazione ha infine deciso di avviare una raccolta fondi e presentare ricorso, per cercare di evitare che la sentenza diventi l’appiglio giurisprudenziale per negare in futuro altre campagne a difesa del diritto alla vita dei nascituri.
Il secondo caso riguarda la campagna #NoEutanasia, per la quale Pro Vita ha ricevuto una nuova convocazione (in precedenza le erano state contestate le immagini della campagna contro l’utero in affitto, alla fine permesse dal Giurì) da parte dello Iap, l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, che giudica i relativi manifesti viziati da «fantasiose prospettazioni» e tali da affrontare il tema del fine vita «in termini falsati». Sarebbe bello pensarla come lo Iap, ma ad avvalorare quelle drammatiche ipotesi - posto che l’eutanasia è sempre un male - sono sia le derive già in atto in diversi Paesi (vedi su tutti l’Olanda, con il caso della diciassettenne Noa Pothoven) sia il mutato quadro normativo italiano, dalla legge sulle Dat al recente pronunciamento sull’aiuto al suicidio, con la Corte Costituzionale che ha ammesso, in presenza di «patologia irreversibile», anche le sole «sofferenze psicologiche» della persona tra le condizioni di non punibilità per chi agevola il suicidio altrui.
Il punto non è quindi la «violenza semantica» o le «fantasiose prospettazioni», ma il fatto che quei manifesti dicano che il re è nudo, combattendo - fuor di metafora - la cultura dominante e la sua svalutazione della vita umana e della famiglia. Per restare a Roma, Pro Vita fa l’esempio degli spot di Taffo, l’agenzia di pompe funebri che si è fatta conoscere in tutta Italia con il suo marketing macabro e dissacratorio: «Non contengono anch’essi una certa “violenza del messaggio” scherzando sulla morte nostra e dei nostri cari? Ci aspettiamo che il sindaco di Roma Virginia Raggi intervenga su tutti i manifesti provocatori». Poi, sempre nella capitale, che dire dei manifesti osceni affissi da anni dal Gay Village? Manifesti che sono contrari al tanto dimenticato pudore, offendono apertamente la sensibilità dei fedeli e sono irrispettosi della stessa libertà degli adulti di educare i propri figli secondo la legge morale naturale. Perché questi sono permessi?
E ancora, facendo un ultimo esempio valido per tutto il territorio nazionale, non ci risultano convocazioni da parte dello Iap per chiedere conto dei manifesti “Testa o croce?” affissi dall’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) in diverse città. E il Comune di Genova è dovuto arrivare fino al Consiglio di Stato per vedersi riconosciuto il diritto di non affiggere quei manifesti, che offendono direttamente la fede cristiana nonché la ragione, attaccando i medici che fanno obiezione di coscienza - un istituto previsto peraltro dalla legge - rispetto all’uccisione dei bambini nel grembo materno.
Certamente, insomma, come ha rilevato anche il Tar del Lazio nella sua sentenza avversa al ricorso di Pro Vita, la libertà di espressione non è priva di limiti, ma va aggiunto che questi limiti attengono al buonsenso, non possono essere ideologicamente orientati, al punto da caratterizzare come “violenti” - e quindi avallarne la censura - dei messaggi che esprimono la contrarietà all’aborto ricordando delle verità biologiche, a tutela della vita nascente. Sennò diventa tutto un pretesto per mettere a tacere le idee oggi sgradite.