Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
EDITORIALE

Malore in chiesa spiega quale sia la posta in gioco al Sinodo

Un'anziana signora colta da malore, due modi di soccorrerla, con le stesse buone intenzioni: ma uno può provocare la morte, l'altro la riporta in vita. Tutto dipende dall'atteggiamento davanti alla dottrina (le regole di pronto soccorso) e se crediamo o no che essa sia la verità.

Editoriali 01_10_2014
Chiesa

Domenica scorsa durante la messa, in un santuario francescano, una signora anziana ha cominciato ad accasciarsi da seduta, evidentemente colta da malore. Una vicina prova a sorreggerla, cercando di non farla cadere, e intanto io – che ero alcune panche indietro – mi porto rapidamente verso la signora per soccorrerla. La vicina mi chiede di aiutarla a portare fuori la signora anziana, perché non vuole sdraiarsi sulla panca. Vergogna, discrezione perché c’era la messa in corso, chissà… Fatto sta che, per evitare troppo trambusto e non perdere tempo in discussioni, sollevo l’anziana signora sotto le ascelle chiedendole se ce la faceva a uscire in quel modo. Senonché in quel mentre, un frate che da lontano aveva seguito la scena si fionda su di noi e ci impone di stendere la donna sulla panca, senza se e senza ma. E nello stesso tempo cerca di tranquillizzare l’anziana signora, dicendo sottovoce “stia tranquilla, non si preoccupi”. Intanto la messa va avanti, la signora resta sdraiata, piano piano si riprende e a fine messa viene accompagnata a casa in auto.

Perché racconto questo episodio? Perché ripensandoci mi ha improvvisamente fatto capire qualcosa dell’attuale dibattito sulla comunione ai divorziati risposati che non avevo ancora messo bene a fuoco. Parlando infatti di chi vive la situazione di un nuovo matrimonio (civile) dopo il fallimento del primo (religioso), coloro che sostengono la necessità di non sbarrare la strada all’Eucarestia, si appellano proprio a una situazione di sofferenza che richiede di essere curata, sanata. “Prima curiamo le ferite, poi parleremo anche di regole” si usa dire per screditare chi fa presente che la dottrina è immutabile.

E via accuse di insensibilità, mancanza di misericordia e incapacità di capire l’umano contro chi mantiene il fatto che la pastorale – la cura delle ferite – non può essere in contrasto con la dottrina. Fino agli sconcertanti eccessi del cardinale Walter Kasper (sì, sempre lui, ma non è colpa nostra se continua a dare interviste a raffica) che l’altro giorno in una intervista al quotidiano argentino La Nacion definiva come “teologi fondamentalisti”, sostanzialmente neanche cattolici, i cardinali che sono intervenuti in questo periodo per contestare le sue posizioni in materia di comunione ai divorziati risposati (clicca qui).

In effetti domenica scorsa anch’io mi sono comportato come Kasper vorrebbe: ho soccorso l’anziana signora assecondando i suoi desideri, in questo dandole anche un immediato conforto, ma mettendo in second’ordine la “dottrina” che vorrebbe che una persona colta da malore venga subito fatta sdraiare, magari sollevando anche le gambe. Senonché pur con le migliori intenzioni il mio gesto “misericordioso” avrebbe potuto causarle gravi conseguenze. Invece, il gesto del frate che in prima battuta poteva sembrare perfino brutale e sicuramente in contraddizione con i desiderata dell’anziana signora, si è rivelato il vero gesto di misericordia capace di guarire la donna malata. Anche perché non si è limitato a far sdraiare la signora, ma le è restato accanto, le ha fatto compagnia.

Ecco il punto: la dottrina non è un insieme di regole arcigne che qualcuno si è inventato per mantenere riservata a pochi eletti l’appartenenza alla Chiesa, ma è la verità di noi stessi e delle nostre azioni, ciò che ci porta alla vita. Nell’esempio citato, sdraiare la persona colta da malore è la verità perché fa il bene della persona stessa; si tratta solo di scegliere il modo più opportuno e non mortificante per realizzarla. Ignorare la verità, in questo caso le regole di pronto soccorso, può trasformare un gesto pieno di buone intenzioni in un disastro, che può perfino cagionare la morte.

Creare una separazione tra pastorale (il curare le ferite) e dottrina (come curarle) può solo provocare maggiori sofferenze. C’è bisogno sia della chiarezza di giudizio (la dottrina) sia della capacità di adattarla alla situazione concreta, per accompagnare la persona verso il bene.

Chi crea una contrapposizione tra pastorale e dottrina, in fondo, non crede che la dottrina corrisponda alla verità di noi stessi e delle persone che incontriamo, che chiede solo di essere verificata nella concretezza della vita. Forse è proprio da qui che dovremmo ricominciare per impostare bene il discorso sull’accesso ai sacramenti.