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VENEZUELA

Maduro istiga alla violenza dentro e fuori i confini

Venezuela, dilaga la protesta studentesca e popolare contro il presidente Maduro. Secondo un bilancio ufficiali, i morti sono 21 e i feriti più di 300. Ma il presidente, invece di mediare, soffia sul fuoco. E rompe con Panama.

Esteri 08_03_2014
Maduro

Con 21 morti e più di 300 feriti, oltre a circa 1500 arresti (secondo un bilancio ufficiale, quasi certamente approssimato per difetto), la rivolta del Venezuela sta diventando uno degli eventi più sanguinosi e traumatici di questo inizio 2014, attirando anche l’attenzione di Papa Francesco. «Seguo con particolare apprensione quanto sta accadendo in questi giorni in Venezuela – aveva detto il Pontefice lo scorso 26 febbraio - Auspico vivamente che cessino quanto prima le violenze e le ostilità e che tutto il Popolo venezuelano, a partire dai responsabili politici e istituzionali, si adoperi per favorire la riconciliazione nazionale, attraverso il perdono reciproco e un dialogo sincero, rispettoso della verità e della giustizia, capace di affrontare temi concreti per il bene comune. Mentre assicuro la mia costante e fervida preghiera, in particolare per quanti hanno perso la vita negli scontri e per le loro famiglie, invito tutti i credenti ad elevare suppliche a Dio, per la materna intercessione di Nostra Signora di Coromoto, affinché il Paese ritrovi prontamente pace e concordia».

Come abbiamo visto, su Nbq, le cause della protesta contro il presidente Nicolas Maduro sono soprattutto economiche, contro le politiche populiste di estrema sinistra del governo bolivariano. I giovani, soprattutto, e i ceti più produttivi iniziano a pensare di non avere più un futuro, vivendo sotto uno Stato invadente e corrotto. Si tratta anche di una protesta contro la violenza dilagante. Basti pensare che il 2013 si è chiuso con circa 25mila omicidi. Vivere nel Venezuela di Chavez e Maduro è letteralmente una guerra, quotidiana e senza fronti.

Iniziata nelle aree andine, la sommossa popolare contro Maduro, che inizialmente era alimentata dagli studenti, è dilagata anche nella capitale Caracas e coinvolge milioni di persone. I manifestanti, prendendo esempio dalle primavere arabe e dalla rivolta del Maidan in Ucraina, erigono barricate e resistono, impedendo il passaggio della polizia. “Chi molla si arrende” è il motto dei resistenti in rete: gli accampamenti e le barricate diventano stabili, presidiati giorno e notte. Il governo reagisce usando una forza sproporzionata, tanto da allarmare la stessa Onu (finora silente), che invita il governo a dialogare con le opposizioni.

Il problema, però, è che non si tratta solo di un’opposizione contro un governo, ma di due pezzi di popolazione in lotta fra loro. A fianco del governo bolivariano si schierano coloro che sono favoriti dalla politica populista, i dipendenti delle grandi compagnie nazionalizzate, soprattutto. E sono soprattutto questi ultimi gli autori della maggior parte delle morti violente nella protesta. Formano dei “collettivi”, incoraggiati dal governo, vere e proprie squadre di picchiatori che non si fanno scrupoli a sparare ad alzo zero, o nelle finestre delle abitazioni, come è avvenuto due giorni fa in un quartiere di Caracas. Al fianco della polizia regolare, poi, c’è una Guardia Nazionale (istituita da Chavez), che arresta arbitrariamente, stupra e tortura gli studenti, come nel caso di Manuel Carrasco , 21 anni, e Jorge Luis León, di 25, detenuti per 60 ore e torturati, fuori da qualunque legalità.

Si tratta di una vera guerra civile a bassa (per ora) intensità, per la spartizione del benessere: i beneficiati dal governo impongono regole e tassano coloro che sono ancora indipendenti dallo Stato, provocando la miseria e la ribellione di questi ultimi, ma allo stesso tempo lottano per la loro stessa sopravvivenza, perché senza il sistema statalista bolivariano si troverebbero senza stipendio e senza lavoro e temono dunque di tornare a fare la fame. Lungi dal diminuire, la lotta fra questi due schieramenti aumenta «Purtroppo permane la polarizzazione politica con l'obiettivo di annientare l'avversario e di ottenere l'egemonia – spiegava alla rivista Popoli, il 26 febbraio scorso, il gesuita Jesús María Aguirre direttore del Centro Gumilla, prestigioso istituto di studio e azione sociale - Nel suo linguaggio il presidente Maduro, anche quando chiama al dialogo, continua a stigmatizzare avversari come borghesi, nemici della patria e golpisti. A sua volta parte dell'opposizione, in un anno non elettorale quale è il 2014, è tentata di trovare scorciatoie per un cambio di governo, senza darsi il tempo per consolidare le basi sociali per un progetto alternativo».

«L'arresto del dirigente dell'opposizione Leopoldo López – spiega il professor Rafael Luciani, docente di teologia a Caracas - corrisponde alla prassi repressiva che il governo venezuelano sta praticando in tutti i settori della vita nazionale: si incriminano i leader dell'opposizione senza mostrare alcuna prova. Solo accuse infamanti e insulti sulle reti televisive nazionali per coloro che non si arrendono al pensiero unico. Da Chávez in poi lo schema d’azione del governo è sempre stato lo stesso. Il Presidente accusa una persona e poi ordina alla Procura di processarla, il che avviene dopo un paio di giorni. Questo è tipico dei regimi dove non c'è indipendenza dei pubblici poteri. Il caso López ha evidenziato questa situazione sui media internazionali. L'arbitrarietà del sistema è tale che il governo ha istituito un Tribunale di un controllo in un centro militare per emettere sentenze civili».

Oltre ad aizzare la sua parte di popolo contro i nemici (non avversari, ma: nemici), Maduro colpisce anche gli Stati ai quali imputa la colpa dell’insurrezione. Per il presidente, amico di Fidel Castro ed erede di Hugo Chavez, la responsabilità dei fatti di sangue ricade interamente sugli Usa. Ma non si limita a rompere i legami con Washington, di cui ha già espulso i diplomatici il mese scorso. Maduro inizia a colpire anche gli altri Stati latino-americani che non lo appoggiano. A Panama è bastato mettere in agenda una discussione all’Oas (Organizzazione Stati Americani) sul caso venezuelano, per vedersi espellere i suoi ambasciatori. «Di fronte alla plateale cospirazione panamense – ha dichiarato il presidente di Caracas – ho deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Panama».

Il momento internazionale è già molto difficile a causa della crisi in Crimea. Un Venezuela fuori controllo e aggressivo sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso. Anche perché le due crisi, quella in Europa e quella in America, rischiano di saldarsi. Se gli Stati Uniti minacciano sanzioni contro il governo di Caracas, la Russia torna a parlare ufficialmente di un suo vecchio progetto: l’apertura di basi militari in Venezuela. Nostalgia della guerra fredda?