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LEADER A CONFRONTO

Ma quale Renzusconi! Renzi è bollito, Berlusconi svetta

Renzi e Berlusconi sono stati spesso messi a confronto, talvolta considerati l'uno l'erede naturale dell'altro (benché sul fronte politico opposto). Ma la parabola di Renzi è già conclusa: il leader di sinistra ha deluso la sua base. Berlusconi, al contrario, continua ad essere riconosciuto come un leader, anche se ormai non è più lui in prima linea.

Politica 06_07_2017
"Renzusconi"

Uno dei ritornelli più abusati nei commenti politici è quello della fortissima somiglianza tra Berlusconi e Renzi. La forte differenza d’età tra i due ha portato molti a definire il secondo un degno figlio del primo, un suo “clone” con 40 anni in meno. In queste considerazioni c’è indubbiamente del vero. E’ stato lo stesso Berlusconi ad elogiare in più occasioni Renzi e a riconoscergli doti carismatiche, salvo prenderne poi le distanze soprattutto dopo l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, che a quanto pare ha portato alla rottura del Patto del Nazareno.

C’è stato perfino chi ha sentenziato che "non c’è bisogno di cercare un delfino di Berlusconi, perché c’è già e si chiama Matteo Renzi". Giusta o sbagliata che sia, quest’affermazione enfatizza gli indubbi punti di contatto tra i due, dall’eloquio travolgente al carattere fortemente teatrale e mediatico delle sortite. Senza contare che su molti temi, la giustizia in primis, probabilmente le posizioni del leader di Forza Italia e del segretario del Pd appaiono pienamente sovrapponibili.

Ma sarebbe ingeneroso nei riguardi dell’ex Cavaliere affermare che l’ex sindaco di Firenze sia una sua fotocopia o abbia le sue stesse doti organizzative o sia capace di trascinare l’elettorato con la sua stessa carica magnetica.

Matteo Renzi era partito con un peccato originale: aver sostituito Enrico Letta nel modo peggiore, con una congiura di palazzo e un tradimento che già avrebbe dovuto far capire agli italiani di che pasta fosse fatto l’ex primo cittadino del capoluogo toscano. Ma gli italiani all’epoca avvertivano un forte desiderio di cambiamento e lo vedevano incarnato nel rottamatore. Renzi divenne Presidente del Consiglio senza passare per il voto e, con l’espediente delle mancette (80 euro in primis), stravinse le elezioni europee del 2014. Da quel momento ha inanellato tutta una serie di errori che non è il caso di riepilogare. Il culmine è stato senz’altro la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, preceduta da tutta una serie di solenni proclami sullo tsunami che si sarebbe abbattuto sull’Italia in caso di vittoria dei “no” e sulla sua intenzione di lasciare la politica in caso di sconfitta dei “si”. La sconfitta c’è stata, pure cocente, ma la promessa non è stata mantenuta, anzi da quel momento Matteo Renzi ha preteso in maniera ancora più spregiudicata di orientare il corso della politica nazionale, pur non essendo neppure parlamentare.

Ha provocato lacerazioni nel suo partito, fino a scatenare divisioni e perfino una dolorosa scissione; ha forzato i tempi nella riconquista del Pd, con primarie affrettate che lo hanno riportato sì alla segreteria, ma tra diffusi malumori. Soltanto due mesi dopo, infatti, il buon Matteo si è dovuto arrendere ad una nuova sconfitta elettorale (voto amministrativo di qualche settimana fa) e, soprattutto, alla presa di distanza, più o meno netta, di alcuni esponenti autorevoli del suo partito, in particolare il Presidente della Regione Lazio,  Nicola Zingaretti, l’ex segretario Pd, Walter Veltroni e, da ultimo, l’attuale ministro dei beni culturali, Dario Franceschini, che ne mettono in discussione la leadership e ne contestano il modo poco collegiale di gestire il confronto interno. Senza considerare i rimbrotti “paterni” di Prodi.

Questa parabola del renzismo, che sembra ormai entrato nella sua fase discendente, in parte si spiega con la rapidità dei cicli politici. Nell’era del web e della sovraesposizione mediatica dovuta alla Rete, gli elettori difficilmente danno un’altra chance a chi esce sconfitto. In internet si fabbricano di continuo nuove icone e nuovi riferimenti, anche se non carismatici, e quindi a volte destinati a durare lo spazio di una meteora. 

Ma la nota dominante del renzismo, che distingue nettamente Matteo Renzi da Silvio Berlusconi, è il rapporto con la base. Il segretario Pd viene contestato dai suoi stessi compagni di partito e da folte schiere di militanti, che gli hanno repentinamente revocato la fiducia, non riconoscendolo come leader della sinistra. Più che dagli avversari di centrodestra e dagli esponenti del Movimento Cinque Stelle, l’ex sindaco di Firenze dovrebbe guardarsi dal “fuoco amico” e dovrebbe tentare di frenare il processo di delegittimazione al quale lo sta sottoponendo il mondo dem e della sinistra in generale.

Silvio Berlusconi, invece, si è sempre rivelato un leader, anche nei momenti difficili. Ad attaccarlo negli ultimi 20 anni sono stati gli avversari politici, quelli mediatico-giudiziari, ma il suo popolo gli ha sempre dato fiducia e ancora oggi esistono ampie fette di elettorato che lo vorrebbero nuovamente a Palazzo Chigi. E’ vero che il berlusconismo è stato croce e delizia del centrodestra italiano, perché ne ha favorito il successo negli anni d’oro, ma probabilmente oggi ne sta frenando il rinnovamento. Tuttavia, se il discorso viene circoscritto ai leader, è possibile dire che solo Berlusconi lo è stato e probabilmente lo è ancora, nonostante l’età avanzata. Renzi vorrebbe conquistare l’elettorato moderato e togliere voti al centrodestra, ma nel frattempo sta perdendo i suoi e si sta rivelando divisivo. Lo conferma il fatto che, nella prospettiva post-elettorale, tutt’altro che remota, di un governo di larghe intese, nessuno prende in considerazione l’ipotesi di un suo ritorno a Palazzo Chigi.