Love & money, ma sono solo canzonette
Non passano due-tre giorni senza che il tiggì nazionale non chiuda la serie di notizie quotidiane con un assist all’industria italiana della canzonetta o del cinema. Il fatto è che da quando la canzone è diventata un’industria bisogna seguire i ritmi, appunto, industriali. E la Tv lo fa docilmente.
Non passano due-tre giorni senza che il tiggì nazionale non chiuda la serie di notizie quotidiane con un assist all’industria italiana della canzonetta o del cinema. Se non si è verificata qualche strage importante, la “prima pagina” è dedicata alla politica interna («Renzi ha detto», «Bersani ha replicato», «secca smentita di Franceschini», «durissimo Cuperlo»…), poi quella internazionale, indi il Papa, la cronaca nera, un riempitivo di “varia” e infine Mollica ci comunica che il tal cantante ha appena fatto un nuovo disco «molto bello» nel quale «raggiunge la maturità artistica» eccetera eccetera.
A domanda sul contenuto delle canzoni quello (o quella) risponde che il tema è l’amore perché per lui (o lei) è la cosa più importante del mondo e che, se nel mondo ce ne fosse di più, di”amore”, le cose non andrebbero come vanno eccetera eccetera. Chiunque si affacci sulla scena tiggina per propagandare il suo cd, la zuppa è sempre questa. Sempre. Verrebbe da pensare che il mondo è duro d’orecchi e che, anzi, sarebbe l’ora di cantargli qualcos’altro, visto che più gli canti l’”amore” e peggio va. Il fatto è che da quando la canzone è diventata un’industria bisogna seguire i ritmi, appunto, industriali.
E la logica del mercato, al quale occorre dare quel che vuole. Ma siamo sicuri che sia questo quel che il mercato vuole? Nel dopoguerra Nilla Pizzi cantava canzoni d’amore: comprensibile, visto quel che era appena finito. Modugno sembrò lì per lì cambiare argomento, ma subito anche lui si adeguò. Seguì Gianni Morandi con il yèyè, ma sempre quella era. La lunga parentesi comunista aggiunse qualche nuovo fromage al plateau, ma a Sanremo vinceva sempre l’”amore”. Anche quando i cantanti italiani riciclavano successi americani o inglesi che parlavano di tutt’altro, la traduzione era sempre monocorde: basti pensare al testo ermetico di A whiter shade of pale che in italiano diventò Senza luce e parlò di indovinate che (l’ancora più ermetica Homburg divenne spudoratamente L’ora dell’amore).
E così via fino ad oggi, con scommessa accettata su che cosa ci propinerà il futuro. Così, mentre un tinto Gianni Morandi ancora riempie le arene con il medesimo repertorio e i grinzosi Rolling Stones si accingono al cinquecentesimo tour mentre un imbalsamato Bob Dylan annuncia il suo ennesimo album, il solito aneddoto personale chiarirà come funzionano realmente le cose nell’industria della canzone. Da ragazzo, anch’io plagiato dal clima culturale (si fa per dire) del tempo, imparai la chitarra e mi misi a scrivere canzoni. Quando ebbi un discreto repertorio di brani mi presentai alla sede romana della più importante ditta discografica. Mi ricevette un “maestro” che, dopo avere ascoltato con aria annoiata quanto avevo di meglio, mi chiese se non avessi qualcosa del tipo My sweet Lord (canzone del defunto George Harrison in lode di Hare Krishna, poi accusata di plagio da Carol King).
Naturalmente, non gli interessava il testo, ma la musichetta orecchiabile, e solo perché aveva venduto molto. Insomma, era, in quel momento, «ciò che va». Provai a fargli ascoltare qualche altra mia cosa, ma ogni volta ripeteva lo stesso ritornello. Mi ritrovai fuori, scornato. Uguali scene, con qualche variante, si ripeterono a Milano presso altre aziende. Alla fine gettai la spugna. Sì, perché i “maestri” che esaminavano le nuove proposte badavano soprattutto al fatturato, producendo con ciò un serpente che si mordeva la coda: davano al pubblico quel che, secondo loro, il pubblico voleva, in un infernale gioco al ribasso senza fine.
Ed è in tal modo che giovanotti e giovanotte, selezionati con criteri quali quelli testé descritti, sono macinati dall’industria e buttati via l’anno seguente per far posto alle “nuove proposte” e ai “talenti emergenti” che dureranno in scena ancor meno. Uno su mille ce la fa, cantava il solito Gianni Morandi, e riesce a pagarsi il mutuo della villa e gli alimenti alle ex. Gli altri, sono fortunati se trovano da esibirsi in Corea. Purché tutti quanti, fortunati e no, cantino “all’italiana”, cioè l’”amore”. Ma che p….!