Lotta contro l'Isis, si prepara il piano d'azione
A Bruxelles si sono riuniti ieri i ministri degli Esteri dei Paesi che fanno parte della coalizione internazionale contro l'Isis. La Nato garantisce appoggio per la ricostruzione dell'esercito nazionale iracheno, ormai completamente sbandato. Kerry annuncia le prossime mosse in Siria e Iraq. E non sono sempre buone.
Un nuovo intervento in Iraq è in vista. Lo hanno annunciato, ieri, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e il primo ministro iracheno Haider al Abadi, a Bruxelles, dopo la conferenza della Coalizione anti-Isis.
La situazione in Iraq è intricata. A dir poco. Il Paese è già, di fatto, diviso in tre. Al Nord i curdi hanno ottenuto l’indipendenza de facto. La loro forza di auto-difesa, costituita dalle milizie dei peshmerga, si è dimostrata la più efficiente nel combattere gli jihadisti dell’Isis. Il Nordovest del paese è, appunto, tutto nelle mani del nuovo Califfato islamico, sunnita, fondamentalista, alleato, a livello locale, con tribù sunnite e ufficiali dell’ex esercito regolare iracheno, nostalgici di Saddam Hussein (quando gli arabi sunniti erano privilegiati). Il centro e il Sud del Paese, che comprende la capitale Baghdad, il grosso del territorio e lo sbocco sul Golfo Persico, è in teoria controllato dal governo di al Abadi, ma in pratica è nelle mani di milizie sciite armate dall’Iran. Scegliere di appoggiare i curdi è rischioso, perché vorrebbe dire rinnegare il legittimo governo iracheno e sancire la divisione definitiva del Paese. Nonostante questo rischio, tuttavia, alcuni Paesi della coalizione anti-Isis (fra cui l’Italia) hanno deciso di inviare ugualmente armi e addestratori ai peshmerga. Scegliere di appoggiare il governo di Baghdad, anche se è la via politicamente più percorribile, è comunque un rischi, perché vorrebbe dire scaricare i curdi (che Baghdad vuole riassorbire sotto il suo controllo) e, probabilmente, come effetto collaterale, aprire le porte all’Iran nell’immediato futuro.
Nonostante questi rischi, la Nato ha ugualmente deciso di fornire tutto l’appoggio possibile al governo di Baghdad, per cercare di ricostruire la sua forza militare regolare giunta a livelli di inefficienza e inaffidabilità incredibili: 50mila soldati risultano “invisibili”, sono arruolati ma non pervenuti. L’impegno è anche politico, stando alla dichiarazione congiunta di Stoltenberg e al Abadi: “Il segretario generale si congratula con il primo munistro per la formazione di un governo inclusivo e valuta positivamente gli sforzi compiuti dal signor al Abadi per ricostruire la fiducia fra le varie comunità etniche irachene”. Stoltenberg sottolinea anche la necessità di un Iraq “unito per sconfiggere il cosiddetto Stato Islamico”. L’intervento della Nato non sarà una nuova missione di combattimento. Consisterà in una consulenza militare per la ricostruzione di un esercito regolare iracheno e di una forza di polizia capace di presidiare i confini e restaurare l’ordine interno. Viste le condizioni attuali delle forze armate e di sicurezza irachene, si tratterà di ripartire praticamente da zero.
Dopo la conferenza dei paesi della Coalizione anti-Isis, il segretario di Stato Usa John Kerry afferma che “c’è ancora molto lavoro da fare. L’Isil (l’acronimo usato dagli americani, ndr) sta commettendo ancora crimini terribili, ma c’è un consenso pressoché universale che il suo momento sia passato”. Inoltre “il suo messaggio è condannato fermamente dai media di tutto il mondo”. Kerry afferma che un intervento non possa essere efficace “se affrontato solo con una azione militare. Si deve contrastare la sua ideologia, il suo finanziamento e la sua azione gobale di reclutamento”. Kerry ribadisce la collaborazione del governo dell’Iraq. Ma anche qui occorre “lavorare ancora molto” per riformare il sistema iracheno, estirpare la corruzione, ripristinare l’ordine. Per quanto riguarda l’Iran, che potrebbe beneficiare indirettamente della situazione, Kerry si lascia scappare che eventuali raid aerei iraniani contro l'Isis sono "positivi". A domanda diretta, però, risponde assicurando che “Non solo non abbiamo pianificato alcun coordinamento con Teheran, ma non pensiamo di pianificarlo neppure per il futuro”. Sulla questione siriana, gli Usa puntano ancora sulla Turchia “con cui siamo impegnati in un dialogo molto intenso”. La Turchia è ritenuto “un alleato potente e affidabile, con un lungo confine in comune con la Siria”, nonostante durante la battaglia di Kobane abbia ampiamente dato prova di inaffidabilità, permettendo ai guerriglieri dell'Isis di arrivare incontrastati fino alle sue frontiere e impedendo per un mese ai curdi di rafforzare i loro connazionali assediati. E comunque: “Gli Usa sono convinti che non vi sarà mai pace in Siria, finché il presidente Bashar al Assad rimarrà al potere”. Quindi si riconferma la strategia, abbastanza paradossale, del “combattere Assad per sconfiggere l’Isis”.
In sintesi: la guerra all’Isis è globale e viene combattuta con le armi dell’antiterrorismo, quelle finanziarie e quelle della guerra contro-ideologica. Quanto alla dimensione locale del conflitto, si punta ancora tutto su un Iraq unificato e sul rovesciamento di Bashar al Assad in Siria. E’ una buona o una cattiva notizia? E’ una cattiva notizia, in ogni caso, per i curdi, gli unici che stanno tenendo testa all'Isis. Ora, sul fronte siriano saranno scaricati a favore della Turchia, mentre sul fronte iracheno saranno messi in secondo piano a favore del governo di Baghdad. Notizie sia buone che cattive, poi, per la comunità cristiana di Siria e Iraq. La prospettiva è veramente tetra, a questo punto, per i cristiani in Siria, che ormai non trovano più alcun serio appoggio fra le forze dei ribelli, dominate da milizie islamiche più o meno fondamentaliste. E’ una prospettiva un po' migliore per la comunità cristiana irachena, ormai interamente sradicata dall’Iraq settentrionale. Da un lato, la riunificazione irachena era auspicata dai vescovi locali. Dall’altro è la via più difficile, perché i cristiani dovrebbero tornare nelle loro case occupate dagli estremisti sunniti e dai numerosi collaborazionisti locali. L’unica alternativa sarebbe stata quella di trasferire interamente la comunità cristiana in un Kurdistan indipendente (l’unico governo che dimostra di rispettarli), separandosi così dal resto del Paese. Ora si tenta la via della riunificazione e del ritorno. Ma quanti saranno sinceramente impegnati in questa missione? Quanto sarà attento alla questione cristiana lo stesso premier al Abadi?