L'ombra del patibolo sui Marò
L'agenzia investigativa della polizia indiana rilascia dichiarazioni ai media sulla possibilità che i Marò italiani vengano condannati a morte. Dopo qualche ora di panico, dal governo indiano arriva la smentita.
Come un “Beautiful” o una vecchia telenovela brasiliana la vicenda dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre si prolunga all’infinito riproponendo sempre gli stessi temi forti, utili a infiammare per breve tempo un’opinione pubblica ormai stufa di una storia che, come molte vicende italiche, può forse essere tragica ma non certo seria. L’ultima novità proveniente dall’India non è infatti una vera novità ma un “remake” della puntata nella quale tutti tememmo che i due Marò potessero venire condannati a morte dai giudici indiani per l’omicidio di due pescatori. L'Agenzia nazionale per le investigazioni (Nia), che ufficialmente sta indagando sul caso ma in realtà ha preso per buone le prove raffazzonate e le testimonianze inattendibili raccolte quasi due anni or sono dalla polizia del Kerala, ha chiesto che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengano processati in base alla legge che prevede anche la pena capitale.
Secondo quanto ha scritto il quotidiano Hindustan Times, la Nia ha inviato il relativo rapporto al Ministero degli Interni malgrado quello degli Esteri avesse suggerito un'accusa meno grave e il ministro Salman Khurshid avesse promesso al governo italiano che i due militari non avrebbero rischiato l'esecuzione. Al centro dello scontro fra i due ministeri c'è una legge approvata nel 2002 (il cosiddetto Sua Act), che prevede il contrasto degli atti contro la sicurezza della navigazione marittima, che prevede esplicitamente la pena capitale per chi provoca a sua volte la morte.
«La nostra logica - ha detto al giornale un responsabile della Nia - è che uccidendo i pescatori, i Marò abbiano commesso un atto che ha messo in pericolo la navigazione marittima. E siccome c'è stato un omicidio, sono passibili di essere accusati in base ad una Legge che prevede la pena di morte». Un paio di dettagli non tornano. Come può il comandante della Nia anticipare la sentenza?. Come può essere certo che Latorre e Girone siano giudicati colpevoli e condannati? In ogni caso non spetta a lui ma a un giudice parlare di colpe e condanne mentre i poliziotti dovrebbero limitarsi a fornire prove circostanziate alla pubblica accusa. C’è nessuno nella civilissima India che prenda calci nel sedere il funzionario di polizia che si improvvisa giudice a beneficio dei media?
Dov’è finito il ministro della Giustizia? A Nuova Delhi hanno le idee talmente chiare che i ministeri che discutono del caso Marò sono quelli di Interni ed Esteri, ovviamente però litigano tra loro sulle leggi da applicare mentre la polizia fa quello che vuole: un contesto caotico determinato forse dall’assurda pretesa della Corte Suprema di Nuova Delhi di far gestire il processo a un tribunale speciale istituito dal governo indiano. Un’aberrazione giuridica che Roma avrebbe dovuto ricusare ma che ha invece accettato calando le braghe davanti agli indiani per l’ennesima volta nella grottesca vicenda dei Marò. Non ha tranquillizzato la fonte diplomatica che, parlando con l'Ansa, ha ricordato «che la decisione finale spetta al giudice che dovrà formulare i reali capi di accusa» a carico di Latorre e Girone. Meglio non fidarsi dell’indipendenza dei giudici indiani, specie ora che la campagna elettorale e le pressioni dei nazionalisti indù stanno riportando la vicenda dei Marò sotto i riflettori.
A smorzare i toni ha provveduto il governo di Nuova Delhi che ha smentito l'indiscrezione dell’Hindustan Times. «Il caso di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre non rientra tra quelli punibili con la pena di morte» ha annunciato il portavoce del governo, Syed Akbaruddin, il quale non ha confermato le indiscrezioni sulla consegna del rapporto della Nia al ministero degli Interni in cui si chiedeva l'applicazione della legge. Presenza fissa in tutte le puntate (più come caratterista che come protagonista) non poteva mancare l’intervento di Staffan De Mistura che come sempre non ha rinunciato alle dichiarazioni ad effetto che si rivelano quasi sempre esilaranti. Appena si diffonde la notizia del rinnovato rischio di una condanna a morte De Mistura dice all’Ansa che «siamo pronti ad ogni evenienza con mosse e contromosse». Quali? Per fortuna a salvare l’inviato del governo italiano da spiegazioni improbabili sulle mosse e contromosse è giunta la smentita di Nuova Delhi. «Noi abbiamo tenuto duro ad altre illazioni, oggi abbiamo avuto la prova che anche quanto detto dalla stampa indiana era un'illazione, dopo l'avvenuta smentita. Non c'è da contemplare neanche lontanamente la pena capitale, noi ci aspettiamo un processo giusto e che i nostri fucilieri tornino a testa alta nel nostro Paese» ha detto De Mistura al TgCom24.
Inutile ribadire che l’unico processo giusto era quello da tenersi in Italia, come prevede il diritto internazionale e l’immunità funzionale di cui godono i militari in servizio attivo. L’Italia avrebbe dovuto chiedere un arbitrato internazionale e non accettare che suoi militari vengano processati da un tribunale speciale in un Paese del terzo mondo dove i funzionari di polizia discettano sui media di condanne e pene. La battuta migliore di De Mistura resta però l’espressione «noi abbiamo tenuto duro», frase che sulla gestione del caso Marò da parte di Roma appare veramente irresistibile. La puntata di ieri della saga “Marò d’India” non poteva concludersi senza registrare qualche sviluppo politico. Ovviamente a Roma, dove Fratelli d'Italia ha chiesto al governo di interrompere i rapporti diplomatici con l'India, sottoporre la questione in sede Nato e pretendere un pronunciamento da parte dell'Unione Europea. Qualora l'Alleanza Atlantica e la Ue decidessero di non prendere una posizione chiara a favore della nostra nazione, l'Italia dovrebbe arrivare anche a ritirare i propri militari dalle missioni internazionali di pace e a congelare il proprio contributo economico alle spese di funzionamento dell'Ue. «Per fare questo servirebbe solo un briciolo di dignità da parte del governo Letta» hanno dichiarato i fondatori di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, Guido Crosetto e Ignazio La Russa.
Iniziative che avrebbero avuto un senso nella primavera del 2012 (se il governo italiano non fosse stato nominato direttamente a Berlino e Bruxelles…) ma che oggi fanno sorridere. E poi, dopo 648 giorni di residenza forzata in India di Latorre e Girone, vi pare il caso di utilizzare ancorail termine “dignità”?