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LIBIA

L'Italia non se la sente di combattere il Califfato

Prima di parlare di un intervento italiano in Libia, degli eventuali mezzi e risorse da impiegare, il governo italiano ha scelto di attendere ancora. Di vedere se si forma un nuovo governo di unità nazionale in Libia che abbia la fiducia del parlamento di Tobruk. La realtà è un'altra: sia l'Italia che gli altri paesi europei non se la sentono di combattere una guerra vera allo Stato Islamico. Che nel frattempo si espande.

Esteri 27_02_2016
Milizie jihadiste libiche

"Prima di parlare di quanti uomini inviare in Libia bisogna avere un nuovo governo": con queste parole il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha ricordato ieri che la priorità di Roma, prima di qualunque impegno italiano in Libia contro lo Stato Islamico, è il voto di fiducia del Parlamento di Tobruk al governo di unità nazionale guidato da Fayez al-Sarraj.

Una fiducia che non è detto arrivi e, anche se arrivasse, non sarebbe sufficiente ad attribuire autorevolezza a un esecutivo voluto dalla comunità internazionale, ma che probabilmente non riuscirebbe neppure a trasferirsi da Tunisi a Tripoli, città già pesantemente infiltrata dall’IS e presidiata da milizie islamiste di Salafiti e Fratelli Musulmani. Questi ultimi combattono in queste ore a anche a Bengasi al fianco dei loro alleati di al-Qaeda contrastando l’offensiva delle truppe di Tobruk appoggiate, secondo le rivelazioni di Le Monde, da truppe egiziane e forze speciali francesi la cui presenza è stata però smentita da Tobruk.

Le aspettative di Roma sono che la prossima settimana il governo di al-Sarraj ottenga la fiducia ma questo non significa che poi abbia l’autorevolezza per chiedere un intervento internazionale contro l’IS tenuto conto che nessuna fazione ha mai espresso la volontà di vedere forze terrestri straniere sul suolo libico.

L’Italia del resto non vuole farsi coinvolgere nella guerra “all’americana” fatta di jet e droni che effettuano attacchi mirati abbinati a incursioni di forze speciali che anche in Libia, come in Iraq e Siria, si dimostrerebbe inconcludente e utile solo ad ampliare il conflitto senza risolverlo.

L’Italia e gli altri paesi europei non hanno però la forza politica e la capacità sociale di scatenare in Libia una guerra tout court contro l’IS impiegando anche truppe sul terreno e una potenza di fuoco “risolutiva”. Come spiegò in modo molto efficace il capo di stato maggiore della Difesa britannico, il generale Sir John Nicholas Reynolds Houghton, “l’assenza di sostegno dell’opinione pubblica e del parlamento potrebbero compromettere la capacità dissuasiva della Gran Bretagna contro eventuali nemici. Intervenendo in una conferenza a Chatam House del settembre scorso, il generale esaminò la riluttanza all’uso delle armi diffusa in Occidente e soprattutto in Europa. “I vincoli opposti all’impiego della forza militare – ha avvertito l’ufficiale – “sono particolarmente significativi nei confronti  del sostegno a operazioni militari da cui potrebbero dipendere interessi nazionali vitali”.

Valutazioni che, se sono vere per Londra, lo sono ancor di più per altri Paesi europei, Italia in testa, con conseguenze potenzialmente disastrose. L’incertezza dell’Europa nel colpire l’IS in Libia aumenterà presso i jihadisti la percezione della nostra debolezza favorendo l’aggregazione sotto le bandiere nere del Califfato di altri gruppi islamisti e aumentando i rischi di azioni terroristiche a casa nostra.

L’incapacità di respingere persino l’invasione degli immigrati clandestini, i cui proventi arricchiscono criminali che finanziano Stato Islamico e al-Qaeda, aumenta ulteriormente la percezione di un’Europa allo sbando e in balìa di chiunque voglia approfittarne. Stretta tra l’incudine di una “guerra vera” che non siamo in grado di combattere e  il martello di una “guerra leggera” controproducente in cui gli Stati Uniti vorrebbero coinvolgerci (anche con i raid dei droni da Sigonella sui quali Roma ha preteso il poter esercitare il diritto di veto) , l’opzione militare italiana in Libia resta quella nota, limitata ad addestrare forze locali (magari in Tunisia come vorrebbero fare i tedeschi per ragioni di sicurezza) e a proteggere alcune sedi istituzionali del nuovo governo a Tripoli.

Una missione di fatto insignificante ma non per questo priva di rischi poiché la presenza di truppe italiane ed europee sul suolo libico, specie se a fare la guardia a obiettivi fissi, rischia di attirare l’attenzione di tutti i kamikaze di Nord Africa e Sahel. In ogni caso le perplessità sull’impegno militare internazionale e lo slittamento dei tempi di messa a punta del nuovo esecutivo libico giocano a favore dello Stato Islamico che sta consolidandosi non solo militarmente ma anche sul piano del consenso popolare nei territori conquistato a Est e a Ovest di Sirte e punta decisamente a ampliare la sua influenza nel sud desertico.

Come in Iraq il supporto popolare al Califfato è radicato tra la popolazione sunnita emarginata dagli sciiti dopo la caduta di Saddam Hussein, così in Libia lo Stato Islamico ha le sue roccaforti nell’area di Derna (da sempre città simbolo dell’estremismo islamico) e a Sirte, città abitata per lo più dalla tribù di Muammar Gheddafi, che nacque poco lontano dal centro urbano. Al fianco dell’IS vi sono quindi coloro che vennero estromessi dagli incarichi pubblici e considerati reietti dai vincitori della  “rivoluzione” del 2011 che grazie alle bombe della NATO mise ko la Libia.