L'islamicamente corretto ha preso casa a Ground Zero
Ieri il mondo avrebbe dovuto ricordare i diciassette anni dall'attentato di matrice islamista delle torri gemelle, ma è la solita farsa ad essere andata in scena. L'islamicamente corretto è diventato il paravento con cui l'Occidente spera di sopravvivere in una guerra in cui siamo perdenti.
Ieri il mondo avrebbe dovuto ricordare i diciassette anni dall'attentato di matrice islamista dell'11 settembre, ma è la solita farsa ad essere andata, invece, in scena. A rimbalzare sulla stampa internazionale è stata infatti la mera spettacolarizzazione della tragedia. Il video restaurato, inedito – anche se poi non lo è - del crollo delle due torri era in prima pagina sui giornaloni e sui social tutti, ma niente di più. Come se le torri gemelle fossero crollate da sole, come in Italia crollano i ponti. Come se quelle morti non avessero un mandante, come se quel sangue non fosse la firma di Al-Qāʿida, come se il terrorismo islamico non c’entrasse nulla.
Eppure basta leggere alcune delle storie che ci riportano a quel drammatico giorno per capire la portata di quell'attacco. Furono circa 3000 i morti, 6000 i feriti, 24 le persone ancora elencate tra i dispersi, 11 donne incinte morirono e quindi l’attentato di quel giorno stroncò la vita anche a 11 bambini mai nati. E intanto c'era chi in Medio Oriente ballava alla notizia di quei cadaveri. Ma c'era chi esultava anche per le strade d'America e d'Europa.
Rick Rescorla era il capo della sicurezza di Morgan Stanley nella South Tower, l'11 settembre salvò la vita di 2700 impiegati. E quando gli fu detto che doveva abbandonare l'edificio, replicò un semplice: "lo farò quando sarò sicuro che anche tutti gli altri saranno fuori". Il suo corpo non fu mai recuperato, ma nessuno lo ha mai dimenticato, soprattutto le truppe statunitensi a Falluja.
Mike Kehoe è il pompiere diventato celebre nello scatto che lo immortalò mentre saliva le scale di una delle due torri: tutti scendevano, lui saliva per controllare che non ci fosse più nessuno. Trenta secondi prima del crollo riuscì a lasciare l’edificio, per trecentoquarantatré dei suoi colleghi vigili del fuoco non ci fu lo stesso destino.
Todd Beamer era uno dei passeggeri del volo United 93, l'unico dei quattro a non aver raggiunto il suo obiettivo schiantandosi in un campo vuoto poco fuori Shanksville e proprio grazie a Todd e alcuni passeggeri, che furono capaci di dirottare l'aereo contro i piani dei kamikaze. Non si saprà mai, probabilmente, quale sarebbe dovuto essere il bersaglio dei terroristi, si pensa il Campidoglio o la Casa Bianca, ma è certo che quegli eroi dei passeggeri riuscirono comunque a risparmiare tantissime altre vite. Beamer aveva due figli e la moglie aspettava il terzo, il cellulare ha registrato le ultime parole d’amore per la sua famiglia e una preghiera senza tempo, “Dio aiutami, Gesù aiutami. Siete pronti? Rotoliamo”.
Don Mychal Judge era cappellano dei vigili del fuoco a New York. Non appena si ebbe notizia degli attentanti al World Trade Center, padre Mychal corse sul posto per dare assistenza spirituale ai feriti e ai suoi pompieri. I detriti di una torre lo uccisero mentre confessava. Portato nella chiesa più vicina e deposto davanti all’altare, fu la prima vittima ad essere registrata l’11 settembre.
E come lui anche don George Rutler si precipitò sulla scena. Gli correvano incontro in cerca dell’estrema unzione. E quando il sacerdote cattolico vide la lunga fila di pompieri entrare nell’edificio, intercettò quanto era scritto sul viso di quegli uomini e concesse l’assoluzione generale a tutti: come truppe che stanno prendendo parte ad un combattimento, cosa che, d’altronde stavano facendo. Padre Gerald Murray, invece, con la sua bicicletta corse giù per la 7th Avenue, per raggiungere il St. Vincent's Hospital: gli avevano insegnato, dirà, che “il cappellano non va sul campo di battaglia, va dove portano i feriti”. E' là che c'erano il silenzio, il vuoto, l'agonia e le suppliche dei feriti insieme a brandelli di esseri umani sacrificati in nome di una religione che è un progetto politico.
A diciassette anni da quell'attentato che ha "cambiato il mondo", il mondo non è cambiato. Tra revisionismo, complottismo e maestri del sospetto qualcuno si è persino preso la briga di raccontarci che quel terrore non era tale, e faremmo bene a non preoccuparcene più. Ora siamo tutti più tranquilli, infatti, quando saliamo su un aereo, quando andiamo in giro per l'Ovest del mondo, quando passeggiamo per le nostre capitali e le vediamo arricchite di ogni sorta di dissuasori antiterrorismo. Siamo tutti più tranquilli perché abbiamo dimenticato, perché i terroristi non vengono più da lontano, ma sono una realtà autoctona. Il nostro autolesionismo è diventato tale che le stragi islamiche si sono susseguite senza soluzione di continuità in questi anni, e quel terrorismo, anche se non è uno qualsiasi, è molto più forte dopo le due torri.
Ma, soprattutto, il nostro autolesionismo, o ipocrisia - si legge uguale - ha portato ad acconsentire ad una moschea vicino a Ground Zero. Un po' come se a Pearl Harbor si desse il via libera per un santuario giapponese scintoista. E non si rendono conto che una moschea lì, come in ogni angolo d'Occidente, vuol dire, "abbiamo vinto anche questa battaglia. L'esito della guerra si fa meno incerto".
Invece di ricordare, stiamo dimenticando l'11 settembre. Barack Obama il 10 settembre del 2015 pensò bene di ribattezzare il "Patriot Day" nella "Giornata nazionale del servizio". Ordine del giorno? Volontariato per i poveri. E l'ex inquilino della casa bianca ordinò anche ai funzionari di evitare di menzionare Al-Qāʿida. Come se fosse sufficiente non parlarne per fare in modo che il terrorismo islamico non esista.
A diciassette anni di distanza non abbiamo nessuno contro cui essere arrabbiati? No, abbiamo solo problemi a distinguere i nostri amici e non sappiamo da chi difenderci. Perché c'è differenza tra rabbia e indignazione. E ci hanno educato a non provare più rabbia, né orgoglio. L'islamicamente corretto è diventato il paravento con cui l'Occidente spera di sopravvivere in una guerra in cui siamo, finora, oggettivamente perdenti.
L'11 settembre non è stata la prima manifestazione dell'odio islamico contro l'Occidente, e non è rimasta l'ultima.