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IL CLIMA DELL'ONU

L'interessata svolta verde dei Rockefeller

La famiglia Rockefeller, quella dei discendenti dei pionieri del petrolio americano, chiude con l'oro nero e apre alle rinnovabili. Viene incontro alle esigenze di una Onu sempre più spompata sul tema del cambiamento climatico, nel corso di un vertice in cui sono assenti Cina, India e Russia.

Creato 24_09_2014
New York, il Rockefeller Center

Svolta verde della famiglia Rockefeller, per aiutare una Onu in difficoltà sul tema del cambiamento climatico.

Una Onu di lotta e di governo: Ban Ki-moon, domenica, era fra i manifestanti ecologisti di New York, assieme al nuovo ambasciatore per il cambiamento climatico, l’attore Leonardo di Caprio. Non si è fatto arrestare, ma un centinaio di altri compagni di strada (in senso letterale) del segretario generale dell’Onu, sono finiti in commissariato perché hanno rifiutato di sciogliere il loro sit-in di fronte alla Borsa di Wall Street. Un giorno dopo, lo stesso Ban Ki-moon era di nuovo al Palazzo di Vetro, a organizzare un summit sul clima, con 120 rappresentanti nazionali. Infine, martedì, il vero evento è un incontro a porte chiuse fra 20 rappresentanti nazionali che dovrebbero raggiungere un accordo preliminare per la riduzione delle emissioni. È l’incontro di più alto livello dai tempi della conferenza sul clima di Copenhagen (2009), ma non fosse stato per i Rockefeller, il summit di New York sarebbe passato decisamente come un flop.

Manca infatti la Cina che, da sola, emette il 25% dei gas serra (quasi il doppio degli Usa), l’oggetto del contendere. Al summit non era presente il presidente Xi Jinping. C'era solo il vicepremier Zhang Gaoli, che ha promesso un generico impegno a "uno sforzo ancora maggiore per affrontare il cambiamento climatico" ma "commisurato con le nostre capacità nazionali e le nostre possibilità". Fare un accordo preliminare per la riduzione di Co2 nell’atmosfera, senza un impegno ufficiale della Cina, è un po’ come fare i conti senza l’oste. O fare un accordo sulla riduzione unilaterale degli armamenti nucleari, lasciando tutto il vantaggio al nemico. E la Cina non è l’unica assente. Mancano anche l’India e la Russia. Il premier indiano, Narendra Modi, dovrebbe arrivare a metà settimana, ma la sua assenza è stata interpretata dagli osservatori come un segno di profondo disinteresse al tema del cambiamento climatico e della riduzione di emissioni. Con il suo miliardo di abitanti, l’India, contribuisce, per ora, al 6% delle emissioni globali (quarta nel mondo), ma potenzialmente potrebbe raggiungere il primo posto, ai livelli della Cina. La Russia emette circa il 6% del totale, come l’India ed è la nazione industrializzata più estesa (territorialmente parlando) di tutto il globo terracqueo. L’assenza di Mosca non è dovuta solo alla crisi in Ucraina, alla tensione con Usa e Ue e all’espulsione del Paese dal G8, ma è la naturale continuazione di una politica di diffidenza nei confronti degli accordi sul clima, portata avanti sia dall’ex presidente Medvedev, che da Putin. Assente anche il Giappone, una delle nazioni più industrializzate al mondo, che con le sue emissioni contribuisce al 3,5% del totale, quinta al mondo. Mancano anche l’Australia (1,11% delle emissioni globali) e il Canada (1,5%).

Insomma, se non ci fossero stati i Rockefeller La promessa della famiglia di petrolieri è stata resa pubblica domenica, il giorno stesso della manifestazione dei verdi a New York, prima dell’incontro al vertice dell’Onu. Di tasca propria dirotteranno 860 milioni di dollari, investiti fino ad ora in titoli petroliferi, in altre fonti energetiche, le rinnovabili. Si tratta di una somma notevole. Giusto per rendere l’idea delle proporzioni, un Paese come la Francia, nel corso del summit all’Onu, ha promesso 982 milioni di dollari in aiuti ai Paesi “vittima del riscaldamento globale”. Una singola famiglia, dunque, può arrivare ad un livello di investimento pari a quello di una potenza economica europea, per incentivare l’energia rinnovabile. E i Rockefeller non sono gli unici, ma hanno aderito al Divestment Movement, che include ben 180 tra imprenditori, organizzazioni, fondi di investimento e organizzazioni, con un volume d’affari stimato in 51 miliardi di dollari, tutti a favore del disincentivo all’utilizzo di fonti energetiche che sfruttano combustibili fossili e l’incentivo all’uso delle energie rinnovabili (fotovoltaico ed eolico prima di tutto).

Anche realizzando il “sogno” di una nazione che si alimenta con energie rinnovabili, tuttavia, non c’è alcuna garanzia che le emissioni si riducano. Ciò è vero su scala globale: anche se gli Usa riducessero a zero la produzione di gas serra, ci sarebbe sempre una Cina, un’India, una Russia a compensare, come abbiamo visto. Ma può essere vero anche su scala nazionale. Come mostra l’economista Rupert Darwall, autore di “The Age of Global Warming”, in un editoriale della National Review, la Germania è la maggior potenza industriale europea che ha puntato sulle rinnovabili, eppure le sue emissioni sono incrementate del 9,3% dal 2009 al 2013. Nello stesso periodo, gli Usa, che non hanno ancora puntato sistematicamente sulle rinnovabili, hanno visto crescere le loro emissioni dell’1,3%, pur registrando una crescita economica maggiore rispetto a quella tedesca. In un sistema complesso, come quello delle emissioni di gas serra, la presenza di minori o maggiori quantità di fonti energetiche “pulite” non risulta in una somma algebrica lineare.

I Rockefeller, destinando una somma così ingente alle energie rinnovabili hanno sicuramente fiutato l’affare. Ma non nei termini che si possono pensare. Infatti è un affare fatto di immagine (la crociata ecologista paga, in termini di pubblicità) e soprattutto di sussidi per le rinnovabili: 23 dollari detratti dalle tasse per ogni Megawatt orario prodotto, secondo la legge statunitense. Dal punto di vista strettamente commerciale, invece, le rinnovabili non sono affatto un “affare”. Sempre osservando l’esperienza tedesca, la stima effettuata da Peter Altmaier (già ministro dell’Ambiente e dell’Energia) nel 2013, parla di un aumento di costi di 1000 miliardi di euro, da qui al 2030, in caso di de-carbonizzazione dell’energia e di passaggio massiccio alle fonti rinnovabili. Non è solo una questione di spese iniziali per gli impianti, della loro manutenzione e dell’allacciamento alla rete. Si tratta anche di compensare l’intermittenza di questa fonte energetica. Il vento non è costante, il sole neppure, dunque per raggiungere gli stessi livelli di produttività di una centrale nucleare o termica, occorre una quantità molto superiore di Gigawatt installati. Rupert Darwall cita l’esempio della Gran Bretagna: per rimpiazzare i suoi vecchi impianti avrebbe bisogno di 22 Gw prodotti da centrali convenzionali, oppure 50 Gw (più del doppio) prodotti da rinnovabili.

I Rockefeller, dunque, difficilmente hanno fiutato l’affare all’infuori degli sconti fiscali e del ritorno di immagine. Ed è triste pensare che, a coronamento di un vertice Onu alquanto inconcludente, i pionieri dell’energia statunitense siano ormai ridotti a ragionare come un carrozzone para-statale.