L'incidente Jumonville, che poteva cambiare il destino degli Usa
Se quella guerra dei sette anni avesse avuto un esito diverso, diversa sarebbe stata tutta la storia successiva nelle due sponde dell’Atlantico. L’America sarebbe stata cattolica e gli indiani non si sarebbero estinti. Il libro di Alberto Rosselli sull'incidente Jumonville.
La guerra dei Sette Anni fu la prima globale, perché francesi e inglesi dal 1756 al 1763 si combatterono anche nelle colonie d’America, Asia e Africa. Perse la Francia, la cui perdita economica fu tale da costringere Luigi XVI a indire gli Stati Generali. Da cui partì la Rivoluzione. La guerra dei Sette Anni cominciò in America ed ebbe inizio da quello che fu detto «incidente Jumonville».
Di quella guerra parla lo storico Alberto Rosselli in Sulle alture di Abraham (ed. Soldiershop publishing Storia, pp. 175, €. 29), con nutrito apparato iconografico e prefazione di Raimondo Luraghi. Dell’«incidente» parleremo qui, perché è istruttivo di uno stile cui gli americani non smisero mai più di attenersi. Governatore della Nouvelle France (così era chiamata l’immensa America francese) era il marchese Ange Duquesne de Melleville. Dall’altra parte del fiume, in Virginia, c’erano gli inglesi del governatore Robert Dinwiddie, i quali avevano ordine di provocare i confinanti con continui sconfinamenti. Un reparto inglese si spinse fino ai paraggi di Fort Duquesne nel 1754. Il comandante del forte, Claude-Pierre Pécaudy de Contrecour, mandò l’alfiere Joseph Coulon de Villiers de Jumonville con un distaccamento di una trentina di uomini a intimare agli inglesi di ritirarsi entro i propri confini.
Di sorpresa i francesi si ritrovarono circondati dagli inglesi, una sessantina tra soldati e alleati irochesi. Jumonville estrasse la lettera con cui Contrecour ingiungeva agli inglesi di lasciare il territorio francese. E lesse lo scritto che terminava con queste parole: «Mi lusingo di credere che Ella riserverà al signore di Jumonville tutti i riguardi che gli spettano come ufficiale e come ambasciatore». Ed eccoli i riguardi: il comandante del reparto inglese ordinò di aprire il fuoco e stecchì l’ambasciatore con altri otto. I restanti vennero catturati e portati via. Uno solo riuscì a fuggire, inseguito dagli irochesi.
Arrivò sei giorni dopo al forte, scalzo e mezzo morto di stenti, a riferire l’accaduto. Il comandante degli inglesi era un colonnello della milizia coloniale, tal George Washington. Sì, proprio lui. Quello la cui Apoteosi dipinta dall’italiano Costantino Brumidi si staglia nel cielo della cupola del Capitol statunitense. Un enorme affresco a imitazione delle Assunzioni della Vergine nelle chiese europee, alto ben 55m e su un’area di 433mq. Sotto di lui c’è una specie di Wonder Woman ante litteram con in mano lo scudo di Capitan America. Vedere per credere.
Se quella guerra avesse avuto un esito diverso, diversa sarebbe stata tutta la storia successiva nelle due sponde dell’Atlantico. L’America sarebbe stata cattolica e gli indiani non si sarebbero estinti. L’Europa non sarebbe entrata in un tunnel di guerre senza fine, una peggio dell’altra, per i due secoli successivi. Non ci sarebbe stata nemmeno la Guerra di Secessione, perché l’America cattolica avrebbe abolito la schiavitù per tempo.
Tornando a Jumonville, a quel punto fu guerra. Che era quanto gli inglesi volevano. Il sistema-Washington fu interiorizzato dagli americani, che iniziarono la loro guerra di indipendenza nel 1773 col cosiddetto Boston Tea Party: coloni americani, truccati da indiani, gettarono in mare il carico di tè inglese su cui non volevano pagare le tasse. Così, gli inglesi se la sarebbero presa con gli indiani, massacrandoli direttamente senza scomodarsi con inchieste e processi. I francesi, invece, avevano al seguito i missionari, i quali battezzavano gli indiani. E un indiano battezzato diventava suddito del re con pari diritti. Il sistema-Washington fu poi così tante volte utilizzato dagli americani per convincere una popolazione riluttante a entrare in guerra che, ancora oggi, una bella fetta di essa è, per esempio, restia a credere che l’attacco alle Twin Towers sia stato davvero opera di una dozzina di musulmani stranieri.