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MEDITERRANEO

Libia nel caos, sarebbe ora di intervenire

La crisi in Libia è degenerata fino al livello di guerra civile. Le milizie jihadiste attaccano il governo retto dal generale Khalifa Haftar, 60mila civili sono in fuga. E le potenze occidentali? Fuggono anche loro, evacuando il personale, come ha già fatto anche l'Onu. L'Italia è l'unica ad avere interesse a intervenire.

Esteri 31_07_2014
Libia in rovina

“La Libia rimane sempre più sola” titolava ieri un lancio dell’ANSA  ricordando i depositi in fiamme dove sono conservati 90 milioni di litri di carburante, simbolo del tracollo di un Paese che vive di export energetico, mentre le fazioni si combattono dalla periferia di Tripoli a Bengasi. Uno scontro riassumibile nella contrapposizione tra l’alleanza delle forze laico-liberali e militari (con la potente milizia di Zintan) contrapposti agli islamisti, dai Fratelli Musulmani ai qaedisti di Ansar al-Sharia passando attraverso le milizie salafite e quelle dei Misurata.

Una crisi che ormai è guerra civile come testimonia senza ombra di dubbio la fuga in Tunisia di oltre 60 mila cittadini libici che continua al ritmo di 6 mila al giorno, un flusso che potrebbe indurre Tunisi a chiudere le frontiere.

L’esodo dei libici costituisce la conferma ulteriore che il tracollo del Paese è imminente. Gli sponsor della “primavera” del 2011, quei Paesi occidentali (USA, Gran Bretagna e Francia) responsabili dell’eliminazione di Muammar Gheddafi e del suo regime hanno trovato una ricetta fulminea per gestire la crisi: la fuga. Lunghe colonne di veicoli hanno accompagnato alla frontiera tunisina diplomatici e residenti, lasciando a Tripoli solo gli italiani la cui ambasciata resta aperta. Per l’ambasciatore Buccino il suo funzionamento è un «incoraggiamento per il governo libico» e la «dimostrazione che non ci siamo ancora arresi», anche se questo non significa che a Roma qualcuno abbia deciso di assumere l’iniziativa per stabilizzare un Paese, per noi vitale sul piano energetico, economico. E, non ultimo, per i danni che ci procurano le ondate migratorie sempre più massicce dalle coste libiche sulle quali pare ingrassino anche le organizzazioni islamiste, oltre a quelle criminali, ammesso che le due cose siano disgiunte.

Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, ha ribadito ieri che l'unico riferimento per affrontare la crisi è l'Onu, ma forse non si è accorta che il personale delle Nazioni Unite è scappato da Tripoli. Del resto il Palazzo di Vetro non fu meno responsabile della NATO della sciagurata guerra del 2011 che ha destabilizzato nord Africa e Sahel.

Per la Mogherini è necessario "ricondurre gli sforzi" nel quadro Onu, unico «riferimento internazionale che garantisce efficacia e imparzialità», ma il "passaggio fondamentale" è l'entrata in funzione del nuovo parlamento libico (prevista il 4 agosto) per consentire di sostituire al piano del confronto militare tra fazioni quello del dialogo politico. Peccato per la ministra che l’ONU sia da tempo sordo alle richieste di intervento del governo libico, mentre le possibilità che gli islamisti, i cui movimenti politici hanno perso anche le elezioni del 25 giugno, siano pronti a gettare le armi per sedersi in Parlamento tra i banchi dell’opposizione, sono pari a quelle che i qaedisti si convertano al cristianesimo. Se alla Farnesina non ci credono, vadano a leggersi cosa pensa Ansar al-Sharia della democrazia parlamentare. Anche per questa ragione il principio dell’imparzialità va messo da parte e l’unico modo per evitare che la Libia tracolli in un abisso somalo è un intervento militare diretto ad appoggiare militari e governativi contro gli islamisti. Una “piccola enduring freedom” sulla nostra ex “quarta sponda” che solo l’Italia può effettuare, anche perché è ormai chiaro che Onu, Nato e Ue non muoveranno un dito, per il semplice fatto che l’attuale caos libico provoca danni diretti solo o principalmente al nostro Paese.

Inutile anche illudersi che le forze laiche e il debole esercito libico possano farcela da soli, come dimostra la caduta di tre basi delle forze del generale Khalifa Haftar, espugnate negli ultimi giorni a Bengasi dai qaedisti di Ansar al-Sharia.

Il viceministro degli Esteri Lapo Pistelli ammette che quella in atto in Libia «è una transizione pericolosa per tutti, ma se c'è un Paese che non si può permettere di far finta di nulla e girarsi dall'altra parte questa è l'Italia». Una valutazione che impone al governo di assumere l’iniziativa attuando un’operazione simile a quella varata nel 1997 dal governo Prodi in Albania (Operazione Alba) che con un consistente contingente militare stabilizzò il Paese balcanico piombato nell’anarchia. La Nuova Bussola Quotidiana ha più volte evidenziato la necessità di fermare i flussi migratori illegali verso l’Italia assumendo il controllo di un tratto di costa libica per riportarvi i clandestini raccolti in mare. Oggi però l’Italia è chiamata,  grazie anche agli “alleati” della NATO, a un intervento più ampio con l’impiego di forze speciali, fanteria leggera (i parà della Folgore sono pronti all’impiego come forza di reazione rapida) unità aeree, elicotteri e soprattutto con un gruppo di navi da guerra che sono già presenti nelle acque libiche, anche se utilizzate come traghetti per raccogliere clandestini. Un dispositivo militare simile a quello che impiegammo contro Gheddafi tre anni or sono, ma che questa volta almeno verrebbe mobilitato per garantire i nostri interessi nazionali, aiutando i governativi e attaccando gli islamisti.

I costi non sarebbero certo più alti di quelli sostenuti per Mare nostrum (100 milioni spesi più altri 60 a bilancio) e per accogliere i quasi 100 mila clandestini arrivati in Italia e in ogni caso basterebbe chiudere la missione militare in Afghanistan per recuperare  fondi e far quadrare i conti. La Libia è davvero abbandonata dalla comunità internazionale e gli unici che possono impedirne il tracollo definitivo, e hanno interesse a farlo, sono gli italiani.