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TENDENZE

L'enfasi sulla Parola porta al marketing

Anche in ambito cattolico ci sono tendenze a sottolineare solo la scriptura. Con il risultato che "vincono"
i professionisti della comunicazione.

Attualità 11_06_2011
Un predicatore protestante

Marshall McLuhan aveva spiegato bene l’inghippo: la rivoluzione di Gutenberg, con l’introduzione della stampa, ha avuto il merito di fare di ogni individuo un lettore; ma il mondo stampato è un mondo visivo. E l’occhio non è una forza neutra: tende piuttosto a frammentare, consente a ciascuno di fissarsi in un punto di vista e di attenersi a quello. Il libro, quindi, favorisce un ritiro verso l’interiorità, con tutto il senso egocentrico che questa frammentazione può provocare.

La parola al Concilio
Non è un caso che il Concilio Vaticano II, quando ha posto in risalto l’importanza di leggere e studiare la parola di Dio, abbia ancorato la lettura biblica a un terreno comune dove il lavoro di approfondimento possa sempre ritrovare un senso unitario. La Dei Verbum, il documento conciliare sulla divina rivelazione, scrive che si deve badare “all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della Viva Tradizione di tutta la Chiesa”. Che è come dire che non ci si può fissare solo su alcuni aspetti delle Scritture, né evitare di misurarsi con la Tradizione che attesta un dialogo vivo e continuo con Dio nella storia della Chiesa. Non solo. Le parole scritte riposano sull’avvenimento del Verbo che si è fatto carne. Come scriveva De Lubac, le Scritture trovano corpo nel pane spezzato nelle mani di Cristo.
Quindi Sacra Scrittura, viva Tradizione, Verbo incarnato sono inscindibili.
Eppure, anche in ambienti cattolici, c’è la tendenza a porre l’enfasi sulla sola scriptura, a invocare “la parola, la parola, la parola” tanto da trasformare le preziose indicazione del Concilio in una sorta di bulimia parolaia. Il rischio è l'enfasi su una dimensione particolare dell'esperienza di fede dove il resto fatica a trovare la dovuta importanza.

“Ottimo sermone, reverendo John”
La domanda è: dove porta l'enfasi sulla "parola" se questa non è ben bilanciata assieme a tutti gli altri elementi in gioco della fede cristiana?
Una risposta consiste nell'andare a vedere chi questo sbilanciamento lo ha già portato a compimento. Gli esempi più lampanti si trovano nel mondo protestante. Lutero, infatti, attaccando tradizione ed eucaristia, ha amplificato al massimo la frammentazione causata, per dirla con McLuhan, dal nuovo ordine visivo introdotto dalla stampa di Gutenberg. Ed è soprattutto negli Stati Uniti, in particolare negli ambienti evangelical, che questo sbilanciamento è perseguito con pervicace e limpida coerenza.

Nei vecchi film americani si vede spesso la scena dove i fedeli, al termine della funzione domenicale, salutano il pastore complimentandosi per “l’ottimo sermone”. Questo è senza dubbio uno dei primi effetti della sola scriptura: per avere una buona funzione, un buon servizio domenicale, ci vuole un buon oratore. Del resto, se tutto si concentra sulla parola, ha valore chi sa parlare. L’annuncio è roba da professionisti della parola. E’ mestiere.
Così il baricentro tende a spostarsi. Il testo del Vangelo si risolve in un pre-testo, dove centrale diventa la personalità e la capacità persuasiva del pastore. Tutto gravita su figure particolarmente seducenti. In Italia conosciamo soprattutto quei tele-evangelisti che appaiono sul canale TBN – Trinity Broadcasting Network. Ma la realtà è molto più estesa.

Marketing chiesastico
Negli Stati Uniti, c’è chi si alza al mattino e decide di fondare una chiesa. Di per sé lo si può fare anche in Italia o altrove. La differenza è che lì si trova più facilmente chi ti sta ad ascoltare. Accanto alle chiese storiche (Luterani, Battisti, Presbiteriani, Metodisti, Pentecostali, ecc) nascono anche molte “non-denominational churches”. Chiese che si definiscono cristiane ma senza nessuna affiliazione. Solo per rendere l’idea, si può dare un’occhiata ad esempi come la Kaleo Church di San Diego, la Park Community Church di Chicago, o la Upper Room di Minneapolis.

Per fondare una chiesa non basta un’insegna e un sito internet
. Sia che non si cresca nel numero di fedeli sia che si cresca, in ogni caso ci sono sempre molti problemi da risolvere. C’è da definire la mission, lo staff deve essere coordinato, la comunicazione non deve risultare equivoca. Operazioni nell’insieme complesse. Ed è qui che nascono le numerose realtà specializzate nel marketing delle istituzioni religiose. Solo per citarne qualcuno, il Center for Church Communication è sicuramente tra i più attivi assieme a un sito sempre aggiornato e di sicuro riferimento come Church Marketing Sucks (che significa “Il marketing chiesastico fa schifo”). Infatti, l’esigenza fondamentale di queste chiese è di avere gli strumenti più sofisticati per sintonizzarsi e orientarsi sul mercato della fede nel modo più repentino ed efficace.
Anche la tecnologia gioca un ruolo irrinunciabile. Perché come spiega il sito Tech Arts Network: “ogni settimana audio, luci, video, grafici e operatori di scena devono lavorare assieme per far sì che il servizio di culto risulti un’esperienza unica ed emozionante”.

Orientarsi al mercato significa anche farsi vedere dal mercato.
E per questo continuamente nascono campagne che cercano di far emergere la propria chiesa dall’anonimato. Si va da quella più convenzionale come il flash mob organizzato a Houston dalla Second Baptist Church durante l’ultima Pasqua, a quella più articolata come Jesus is____ dedicata a iniziative di carattere sociale, o a quella più provocatoria come la 30-Day Sex Challenge. La Bethlehem Community Church, neozelandese, ha fatto parlare di sé con le proprie affissioni che facevano il verso a una nota marca di birra. Lifechurch.tv invece ha preso come testimonial il diavolo stesso. Altro caso ancora sono le incursioni del reverendo Billy che, con la sua chiesa  Life after shopping, si prende cura dei compulsivi della carta di credito, lanciando esorcismi ai registratori di cassa.  

Segmenti di parole

Ora, sorvolando sui casi più pittoreschi, non si può certamente dire che tra tutte queste comunità non ci siano autentiche testimonianze di vita cristiana. Quello che fa riflettere è come l’esperienza di fede che dovrebbe spalancare l’orizzonte rischi, invece, di chiudersi nel perseguimento di una rigida specializzazione. E’ come se la fede si risolvesse per intero in un singolo carisma. Un’esperienza totalizzante, ma non universale.

Se la riforma protestante ha inaugurato un rapporto diretto con la pagina scritta della sacra Scrittura, in un contesto di frontiera come quello americano questo si è tradotto nell’assenza più assoluta di ogni mediazione di una tradizione interpretativa. Senza alcun riferimento in qualche modo vincolante, ogni interpretazione ha trovato un autonomo motivo di validità. Ma risultando ogni interpretazione valida, il rapporto con la pagina scritta è diventato estremamente evanescente, quasi accessorio. Le Scritture sono diventate la citazione dei versetti e la lettura si è estremamente parcellizzata.

Tutto questo collima benissimo con una logica di marketing. Perché se il mercato va segmentato secondo le tipologie di consumatori, la lettura parcellizzata delle sacre Scritture permette di reperire il messaggio di cui, di volta in volta, si necessita. Il contenuto sempre più frammentato non può che perdere forza. Il testo scritto sparisce sempre di più, mentre si fa avanti la performance del predicatore. E, in effetti, in particolare con i telepredicatori, di “sostanza” ce n’è pochissima mentre invece sono favoriti tutti gli effetti retorici. Non c’è lo sforzo di aprirsi alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori. Piuttosto tutto tende a risolversi nella modulazione di un flusso di parole capace di sintonizzarsi sullo stato emozionale del partecipante.

Verbum caro factum est: il medium è il messaggio
McLuhan ha avuto il grande merito di sottolineare che il medium non è mai neutro: l’introduzione del libro stampato e la diffusione della televisione hanno comportato modifiche agli stessi contenuti della fede. Il passaggio, che stiamo vivendo in questi ultimi anni, a un modello di relazioni basato su connessioni orizzontali, dove alla comunicazione monodirezionale si sostituisce una rete sociale fatta di conversazioni, sicuramente porterà nuove trasformazioni. Ed è anche probabile che questo possa giovare la modalità cattolica di trasmissione della fede, fondata sul contatto personale, sulla vicinanza fatta di carne e ossa. Basti pensare all’importanza che qui assume la successione apostolica.

In ogni caso, rimane sempre valido quanto indicato da McLuhan, il quale, da buon cattolico, ha riconosciuto in Cristo il paradigma di ogni comunicazione. Perché la formula  il medium è il messaggio, altro non è che la parola che si è fatta carne, ovvero il messaggio è il dono della sua persona e non la sua riduzione a formule ad uso di abili parolieri. E con questo ritorniamo a quanto si diceva all’inizio, a quel sapiente equilibrio tra sacre Scritture e Sacramenti che il Concilio Vaticano II ha messo al centro dell'attenzione.