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Ora di dottrina / 174 – La trascrizione

Le manifestazioni del Risorto (II parte) – Il testo del video

«I misteri di Dio vengono rivelati diversamente secondo le disposizioni di chi li riceve», spiega san Tommaso a proposito del perché Cristo risorto apparve ad alcuni sotto altro aspetto. La convenienza delle prove della risurrezione. E i due significati del termine “prova”.

Catechismo 07_09_2025

Prima della pausa estiva (vedi qui) abbiamo affrontato tre articoli della quæstio 55, che tratta delle manifestazioni di Cristo risorto. San Tommaso si sofferma sulla convenienza del fatto che Cristo sia apparso, si sia manifestato ai suoi discepoli, alle donne, e sulla convenienza di alcuni dettagli delle scelte che Dio ha fatto in questa manifestazione. Abbiamo visto che in questi articoli c’è in primo piano un concetto fondamentale: la comunicazione delle verità, dei misteri della fede. Abbiamo spiegato che vige il principio “come in cielo, così in terra”. Cioè, riguardo alle schiere angeliche, Dio rivela direttamente ai soli primi cori angelici i misteri della sua divinità e i misteri della redenzione che Egli intende attuare; poi, i primi cori comunicano questi misteri alle schiere, alle gerarchie successive; e il passaggio all’uomo viene fatto tramite un annuncio angelico.

Così avviene anche nella comunicazione dei misteri divini che riguardano l’uomo; gli uomini appunto ricevono un dato messaggio da alcuni testimoni: dagli angeli, come leggiamo nei Vangeli, nei brani sulla risurrezione; ma anche da alcuni testimoni prescelti; in particolare, abbiamo visto che i discepoli ricevono l’annuncio della risurrezione di Gesù dalle donne, prima di poter toccare con mano la carne gloriosa del Risorto. E noi riceviamo l’annuncio da questi testimoni prescelti. Dunque, c’è un ordine fondamentale con cui Dio comunica la conoscenza dei misteri del Regno dei cieli e di Sé stesso.

Abbiamo parlato anche dell’importanza della logica della fede rispetto al fatto che mancassero i testimoni oculari del momento esatto della risurrezione (mentre non mancano i testimoni oculari del Risorto); e abbiamo fatto alcune riflessioni al riguardo. Abbiamo parlato anche dell’opportunità che Cristo sia apparso ai discepoli senza tornare a vivere 24 ore su 24 con loro, proprio perché i discepoli non fossero indotti nell’errore di pensare a un ritorno alla vita precedente. La testimonianza della risurrezione richiede non solo che colui che era morto sia tornato in vita, ma che sia passato ad una vita gloriosa, immortale. Gesù non ha assunto semplicemente una nuova vita mortale come nel caso delle risurrezioni che il Signore opera nei Vangeli [vedi la figlia di Giairo, Lazzaro]. Questo è un po’ il quadro della lezione precedente.

Ci rimangono da vedere altri tre articoli, tutti molto densi, della quæstio 55 della terza parte della Summa Theologiæ. Iniziamo dall’art. 4 che riflette su un elemento di queste manifestazioni di Cristo. In particolare, il riferimento qui è ai discepoli di Emmaus, ai quali «apparve sotto un altro aspetto», come ci dice il Vangelo di Marco (16, 12); nel Vangelo di Luca, che racconta più in esteso, nel capitolo 24, l’apparizione ai due discepoli di Emmaus, vediamo che in effetti essi non riconoscono il Signore Gesù, che era apparso loro sotto un aspetto diverso. San Tommaso si domanda perché Gesù appaia sotto un aspetto diverso; e perché ai discepoli nel Cenacolo appare in modo che lo riconoscono abbastanza immediatamente?

Ora, san Tommaso pone questo principio e dice: «I misteri di Dio vengono rivelati diversamente secondo le disposizioni di chi li riceve. Quelli infatti che hanno l’anima ben disposta percepiscono le cose divine secondo verità. Quelli invece che non hanno l’anima ben disposta le percepiscono con una mescolanza di dubbi ed errori» (III, q. 55, a. 4). Quindi, san Tommaso pone un principio importantissimo: la modalità con cui l’uomo si dispone nei confronti dei misteri celesti, nei confronti di Dio, determina il modo della manifestazione. Detto in altre parole: non è Dio che fa “il prezioso”, che non vuole manifestarsi più di tanto, ma è in gioco la modalità con cui l’uomo si dispone a ricevere. Aggiunge Tommaso: «Così Cristo, a coloro che erano disposti a credere, apparve dopo la risurrezione nelle sue proprie sembianze. Apparve invece sotto altre sembianze a coloro che erano ormai tiepidi nella fede» (ibidem). Una certa tiepidezza la troviamo nei discepoli, la troviamo in Tommaso, la troviamo nei discepoli di Emmaus che apertamente dicono: «Noi speravamo che…» (Lc 24, 21), a indicare proprio l’affievolirsi, lo spegnersi della speranza.

San Tommaso aggiunge una considerazione tratta dalla XXIII Omelia di san Gregorio Magno: «“Si mostrò loro fisicamente come se lo figuravano nel pensiero. Essendo egli infatti nei loro cuori ancora come uno straniero lontano dalla fede, mostrò di voler andare più lontano”, come se fosse veramente un pellegrino» (ibidem). Il concetto importante che a noi preme trattenere di questo articolo è il seguente: dobbiamo fare molta attenzione perché Dio non violenta le disposizioni dell’uomo; Dio può dare delle luci, delle grazie, perché l’uomo si apra, esca dalla sua tiepidezza, si scuota dal dubbio, ma non può “imporre” Sé stesso a prescindere dalle disposizioni dell’uomo. Questa è la legge che sottende i rapporti umani e i rapporti umano-divini. L’uomo è realmente un soggetto personale libero, non è uno scherzo, e quindi la modalità con cui l’uomo si dispone a credere, a ricevere questi misteri influenza la modalità con cui Dio si manifesta, o meglio con cui noi percepiamo la manifestazione di Dio.

Nell’art. 5 e nell’art. 6, san Tommaso tratta due tematiche: nel primo, se fosse conveniente che Cristo manifestasse la realtà della sua risurrezione con delle prove; nell’altro, se queste prove fossero sufficienti a manifestare la verità, la realtà della sua risurrezione. Sono due temi molto collegati tra loro.

Partiamo dall’art. 5, che è tutta una riflessione sul senso delle prove. E potremmo dire che le obiezioni che san Tommaso si muove, ruotano tutte attorno a questo principio: se ci sono delle prove, allora non c’è più bisogno della fede; cioè, le obiezioni sostengono che non era opportuno che il Signore fornisse prove della risurrezione perché altrimenti verrebbe meno la fede; quanto più ho delle prove, tanto meno ho della fede. E dunque fornire prove in qualche modo toglie il merito della fede. E viceversa, la fede pura non ha bisogno di prove. Questa è un po’ l’obiezione che san Tommaso si pone davanti, e a cui cerca di rispondere in questo articolo.

Come suo solito, san Tommaso fa una distinzione che è la base per comprendere questa apparente antinomia prove-fede: «Il termine prova può avere due significati. Talora infatti indica qualsiasi “ragione che fa fede in una materia dubbia”. Talora invece indica qualsiasi segno sensibile addotto per mostrare la verità di una cosa» (III, q. 55, a. 5). Quando io parlo di “prova”, di provare qualcosa, lo posso intendere in due modi. Il primo senso che san Tommaso ci dice e che prende da un testo di Cicerone è: una “ragione che fa fede in una materia dubbia”, cioè un ragionamento; oppure, ed è l’altro significato, la prova indica un segno sensibile, un fatto. In base a quello che io intendo per prova, questo influenzerà positivamente o negativamente l’atto di fede.

Vediamo quello che dice san Tommaso: «Se con il termine di prova viene preso il secondo significato [cioè il segno sensibile per mostrare la verità], allora si deve dire che Cristo manifestò la sua risurrezione con delle prove in quanto mostrò con alcuni segni evidentissimi che era veramente risuscitato. (…) Cristo si servì di segni di questo genere per dimostrare la sua risurrezione ai discepoli per due motivi. Primo, perché i loro cuori non erano disposti a credere facilmente alla risurrezione. Secondo, per rendere con tali segni più efficace la loro testimonianza» (ibidem). Vediamo cosa ci sta dicendo qui Tommaso. Quando noi guardiamo le manifestazioni della risurrezione, ci rendiamo conto che tra queste due accezioni del termine “prova”, il Signore sceglie il secondo; cioè la risurrezione non è un ragionamento che prova qualcosa, ma la manifestazione della risurrezione è l’offerta di segni che provano qualcosa; dunque siamo nel secondo significato. E perché li offre? Per le due ragioni già esposte. Primo, perché i cuori dei discepoli non erano facilmente disposti alla risurrezione; non capita tutti i giorni di vedere una risurrezione, tra l’altro gloriosa; non era mai capitato nella storia dell’umanità! Secondo, perché questi segni fossero poi efficaci, rafforzassero la testimonianza che i discepoli avrebbero dato. Quindi, da un lato rafforza la fede dei discepoli, dall’altro rafforza la loro testimonianza perché possono esibire fatti, non semplicemente ragionamenti.

Il punto da capire lo troviamo nella risposta alle obiezioni: quello che è contrario alla fede, che cozza con la fede e in qualche modo la soffoca, generando un aut-aut, è il termine “prova” inteso nel primo significato; se io posso provare qualcosa tramite un ragionamento, una deduzione, allora è chiaro che non ho più bisogno della fede. Detto in altri termini: se la risurrezione di Cristo potesse essere la conseguenza di una dimostrazione puramente razionale, quindi la possibilità di dedurre con certezza la verità della risurrezione tramite un ragionamento, non tramite l’impatto con la fattualità, con un Risorto concreto, è chiaro che la fede verrebbe meno. Perché la prova elaborata dalla ragione umana – potremmo dire che quella verità è a livello della ragione umana – non ha bisogno della fede.

Quindi, è questo il primo senso dell’obiezione di cui parlavamo all’inizio. Ma se io parlo di prove nel senso di segni, allora il “giochino” non tiene più. Perché i discepoli non credono alla risurrezione in virtù di ragionamenti a priori, di deduzioni della ragione: ci credono per un impulso soprannaturale, basato sulla prova concreta di essere davanti a Cristo risorto; questo tipo di prova non annulla la fede, ma la fonda. Uno potrebbe ricordare la famosa risposta del Signore: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (Gv 20, 29). Sì e no, nel senso che la nostra fede nella risurrezione non è del tutto svincolata dai segni, perché noi crediamo alla risurrezione sulla base della testimonianza dei discepoli. Cioè, i discepoli credono sulla base di quello che hanno potuto vedere, constatare, toccare, ma noi certamente non crediamo sulla base di quello che abbiamo potuto vedere e toccare, ma pur sempre sulla base di quello che loro hanno annunciato di aver visto e per gli elementi di credibilità della loro testimonianza. Quindi, questo tipo di prova non solo non toglie l’atto della fede, ma lo fonda, cioè rende l’atto di fede conforme alla natura razionale dell’uomo. Se invece fosse stato solo un ragionamento, sarebbe stato l’atto della ragione dell’uomo, punto, senza fede. Qui invece il contenuto è qualcosa che sorpassa la ragione dell’uomo, e tuttavia la modalità conoscitiva dell’uomo ha un suo appiglio, un appoggio, nella sperimentazione dei segni, che fondano l’atto di fede.

Spero di aver spiegato la differenza tra l’uno e l’altro aspetto, perché tante volte su questo c’è confusione. Uno dice: “Non abbiamo bisogno di segni per credere”; un altro dice: “Sì, ne abbiamo bisogno”, “se c’è la ragione, allora non c’è la fede”, etc. San Tommaso ci invita alla calma: cerchiamo prima di distinguere cosa intendiamo con il senso della prova e vedremo come in un caso, se è una conclusione della ragione (una conclusione a cui la ragione naturale arriva), non c’è bisogno di per sé della fede; poi, uno può credere per fede ciò che in realtà poteva raggiungere anche con la ragione, ma questo è un altro discorso. Qui invece la prova, il segno che dà l’evidenza di avere davanti il Risorto, fonda la fede nella risurrezione, non la toglie. Questo è importante. Perché la fonda? Perché la risurrezione non è la conclusione di un ragionamento logico, non è la conclusione di una deduzione razionale; la risurrezione di Cristo dai morti è o non è: e per decidere se è o non è, devo avere davanti un fatto, non un ragionamento.

Questo ragionamento che abbiamo fatto dovrebbe richiamarvi quello che abbiamo visto l’ultima volta, prima della pausa estiva. Allora parlavamo dell’attenzione di san Tommaso al metodo teologico, che non significa partire da quello che secondo me è ragionevole per dire che Dio lo deve aver fatto o lo deve fare, ma è il contrario: vedere ciò che Dio ha fatto e scoprirne le ragioni. Questa modalità delle prove conferma proprio quanto detto: ci troviamo di fronte a dei fatti, il fatto della risurrezione di Cristo; adesso possiamo in qualche modo indagarne le ragioni. Non il contrario: non è perché secondo me la risurrezione è ragionevole per X, Y motivi che allora essa è vera, è avvenuta o deve avvenire. Quindi è importante tenere l’approccio giusto.

Vediamo l’art. 6, l’ultimo della quæstio 55, dove san Tommaso – dopo essersi chiesto se fosse stato opportuno accompagnare la realtà della risurrezione con delle prove – si chiede se queste prove siano state sufficienti a mostrare la realtà della risurrezione. Prima di tutto, san Tommaso ci riassume i due tipi di testimonianze che il Signore ha voluto in qualche modo dare. Prima vediamo le testimonianze, poi le prove vere e proprie. Quali erano le testimonianze? Non erano le aspettative, i ragionamenti umani, erano invece: 1) la testimonianza angelica. Prima che i discepoli potessero vedere il Risorto già avevano ricevuto l’annuncio dell’angelo tramite le donne; 2) le testimonianze della Scrittura. Pensiamo all’episodio del capitolo 24 del Vangelo di Luca, dove Gesù ricorda ai due discepoli di Emmaus che le Scritture stesse già attestavano che Cristo sarebbe risorto. Dunque, un primo sostegno alla fede nella risurrezione viene dalle testimonianze: la testimonianza angelica e la testimonianza delle Scritture.

Poi, ci sono le prove. E qui san Tommaso riassume il tipo di prove per far vedere la perfezione della scelta che Dio ha fatto nel manifestarsi in un certo modo e non in un altro o in un altro ancora; nel manifestarsi a Tizio e non a Caio, con il proprio corpo, con il mangiare, eccetera. E dice: «Le prove furono sufficienti a mostrare che la risurrezione era vera ed era gloriosa» (III, q. 55, a. 6). Questi sono i due punti cardine. Era vera: ma come ha mostrato il Signore che la sua risurrezione era vera? Quali prove sufficienti ha dato perché si potesse constatare che era vera la risurrezione? «Primo, chiarì che esso era un corpo vero e solido» (ibidem). Non era un fantasma, non era immaginario, non era una visione. E Gesù lo chiarisce chiedendo di essere toccato, di essere palpato. «Secondo, mostrò che era un corpo umano, presentando le sue vere sembianze» (ibidem). È apparso con le sembianze del vero corpo, perché era un vero corpo; se le sembianze non fossero state quelle del vero corpo è chiaro che non ci sarebbe stata questa conferma. «Terzo, chiarì che il suo corpo era identico a quello di prima mostrando le cicatrici delle ferite» (ibidem). Dunque, questi elementi – un corpo solido, vero anche nelle sue sembianze, un corpo identico al corpo prima della risurrezione, come constatabile tramite le piaghe, che sono un po’ il sigillo del passaggio dal corpo mortale al corpo glorioso – danno la prova sufficiente per credere che la risurrezione sia vera. Poi ci dice che non doveva solo fondare la verità della risurrezione, ma anche dimostrare che fosse una risurrezione gloriosa.

Riguardo alla verità della risurrezione, com’è stata constatata per Gesù la riunificazione dell’anima e del corpo? I discepoli, ci spiega Tommaso, hanno potuto constatare le tre attività dell’anima umana di Gesù: vegetativa, sensitiva, intellettiva. L’attività vegetativa l’hanno constatata perché più di una volta Gesù risorto mangiò e bevve in presenza dei discepoli. Quella sensitiva perché Gesù mostrava di vedere, di udire i suoi discepoli, rispondeva alle loro domande, interveniva in base alle loro risposte: pensiamo all’apparizione ai discepoli di Emmaus, agli Undici, eccetera. E infine hanno constatato la vita intellettiva: perché? Perché Gesù risorto spiegava le Scritture ai discepoli, il che richiede una vita intellettiva. Dunque, anche sotto questo aspetto, si dimostra che è una risurrezione vera.

Vediamo adesso perché questa risurrezione è stata gloriosa. La risurrezione gloriosa, ci dice Tommaso, mostra un duplice aspetto. Primo, il fatto che il corpo di Cristo risorto fa cose che un corpo semplicemente redivivo – cioè un corpo tornato dalla morte alla vita precedente – non potrebbe fare. San Tommaso ci ricorda per esempio il fatto che Gesù risorto poté sparire immediatamente dalla vista: e questo un corpo mortale, anche se risorto, non è in grado di farlo. In più, aggiunge san Tommaso, traspare la natura divina: da che cosa lo vediamo? Dal fatto per esempio che il Signore risorto opera il miracolo della pesca: l’ultimo miracolo della pesca narrato dai Vangeli (cf. Gv 21, 1-14), quando Pietro in qualche modo “tira su le antenne” e [con l’ausilio di Giovanni] lo riconosce. Questa è una manifestazione della sua divinità. Poi, la manifestazione per eccellenza della divinità di Gesù è la sua ascensione, quando i discepoli vedono questo vero uomo risorto ascendere al cielo.

Dunque, l’insieme di tutti questi elementi ci dice la convenienza di questi fatti, perché il Signore conferma i discepoli nella verità della sua risurrezione e nella specificità della sua risurrezione gloriosa e, in più, della sua natura divina. Vedete la bellezza di questo articolo, la profondità di queste questioni. La prossima volta vedremo l’ultima quæstio, la n. 56, che tratta della risurrezione di Gesù e in particolare della causalità di questa risurrezione, cioè di che cosa essa è causa. Poi proseguiremo con i misteri della vita di Cristo, approfondendo la sua ascensione.



Ora di dottrina / 173 – La trascrizione

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