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FINANZA

Le mani sulle banche popolari

Le banche popolari finora si sono rivelate una realtà sana. I crediti alle aziende non sono mai cessati, nemmeno in tempo di crisi. Soprattutto sono realtà democratiche, in cui i soci votano per testa e non per quota. Renzi vara un decreto che ne stravolge la natura, trasformandole in Spa. Una mossa che sa tanto di appropriazione.

Editoriali 22_01_2015
Banco Popolare

La decisione del Governo Renzi di varare un decreto legge per cambiare la “governance” delle banche popolari appare un ingiustificabile atto di potere per ricondurre nell’ambito del controllo politico e dei grandi interessi finanziari un settore che è stato non solo per decenni, ma per secoli, una delle strutture portanti dell’economia e della società italiana. Un settore nato dalla logica solidaristica e cooperativa, una logica che si è sviluppata soprattutto grazie ai forti legami con il mondo cattolico e le sue espressioni locali.

Innanzitutto vediamo il cuore del provvedimento. Le grandi banche popolari devono entro 18 mesi trasformarsi in società per azioni. In pratica viene abolito il voto capitario che ha sempre contraddistinto queste realtà: fino ad ora i soci di queste banche, qualunque quota di azioni possedessero, votavano infatti nelle assemblee con solo voto, uguale a tutti gli altri. Nelle Spa invece i voti sono proporzionali alle quote possedute e quindi una singola persona può acquisire la maggioranza o comunque il controllo della società.

Il voto capitario, il voto quindi in rappresentanza della persona e non delle quote possedute, è un caratteristica che esprime il fatto che la persona e non il denaro è al centro dell’attività economica, ed è una caratteristica definita negli statuti dei singoli istituti e che comunque non ha impedito alle banche popolari di crescere, di aiutare altre banche in difficoltà, di erogare credito secondo le esigenze del territorio. Peraltro i casi di crisi più rilevanti nell’attuale realtà sono quelli del Monte dei Paschi di Siena e della Cassa di risparmio di Genova che, guarda caso, banche popolari non sono. E anzi sono banche, soprattutto quella senese, legate a filo doppio con la politica locale e nazionale. 

Allora perché intervenire con un provvedimento peraltro ingiustificabile dal profilo giuridico dato che il decreto legge può essere varato solo per motivi di necessità e urgenza, motivi che verosimilmente non ci sono per una riforma di cui si parla da più di vent'anni?  

La realtà è che le banche popolari e il loro modello davano sempre più fastidio e la loro autoreferenzialità era considerata sempre più un ostacolo alle manovre di controllo del sistema finanziario. Mentre permettere che arrivino azionisti forti può aiutare a decidere interventi di soccorso e magari di favore. Come ha scritto un grande giornale le due ragioni principali della riforma sono il fatto che che le “holding finanziarie devono puntare al profitto più che allo svolgimento di una funzione mutualistica” e alcune , udite, udite,  “sono nate addirittura nelle case dei vescovi e oggi del colosso come Ubi è azionista pure la Congregazione delle suore ancelle della Carità di Brescia e il Convento delle religiose di Sant’Orsola, sempre di Brescia”. Che scandalo! 

Eppure proprio le banche popolari, ovviamente in misura diversa e con qualche differenza nei comportamenti, hanno avuto e continuano ad avere proprio la funzione mutualistica al centro della propria missione. Si puó capire che questo dia fastidio a chi vuol estendere il proprio potere di controllo e di intervento e a chi guardi ai capitali solo come espressione di potere.

Certo, nella storia delle popolari, ci sono stati e probabilmente ci sono ancora, problemi e giochi di puri interessi. Ma non un caso che il sistema complessivo delle popolari ha affrontato e risolto con le proprie forze anche le situazioni più difficili. Certo, c’è stato il caso della Banca popolare di Lodi, con la spregiudicata politica di acquisizioni varata da Giampiero Fiorani, ma la banca è stata poi salvata e integrata nel gruppo della Popolare di Verona. È così  altre banche in difficoltà come il Banco di Brescia o il Credito varesino sono entrate a far parte del gruppo Ubi. E il Credito artigiano è entrato nel gruppo del Credito valtellinese. Integrazioni, fusioni e acquisizioni sono state possibili anche con l’assetto istituzionale che ha regolato fino ad ora il settore, peraltro deciso e mantenuto in piena autonomia.

I dati sul credito poi confermano che le erogazioni della banche popolari non hanno fatto mancare i finanziamenti alle piccole e medie imprese: una ricerca dell’autorevole centro studi della Cgia di Mestre ha rilevato che “In anni in cui la stragrande maggioranza delle banche ha chiuso i rubinetti del credito alle famiglie e alle imprese, le uniche ad aver incrementato gli impieghi sono state le Banche popolari. Nell’arco di tempo che va dall’inizio della fase di credit crunch (2011) sino alla fine del 2013, le Popolari hanno aumentato i prestiti alla clientela del 15,4%; diversamente, quelle sotto forma di Spa e gli istituti di credito cooperativo hanno diminuito l’ammontare dei prestiti rispettivamente del 4,9 e del 2,2%. Lo stesso trend negativo – conclude la ricerca Cgia - è stato registrato anche dalle banche estere presenti nel nostro Paese: sempre tra il 2011 e il 2013, i prestiti sono diminuiti del 3,1%”.

Peraltro gli stessi stress test della Banca centrale europea hanno promosso i conti delle popolari così come quelli dei grandi colossi (tranne, come detto, Mps e Carige, che torniamo a sottolineare, banche popolari non sono).

Perché allora questa fretta di varare un decreto che ha incidenza solo sugli assetti di potere, che incide gravemente sull’autonomia e sulla libertà d’impresa, e non cambierà nulla, almeno nell’immediato, sul fronte dell’attività bancaria verso le famiglie e le imprese? Le giustificazioni per questa scelta (dare più efficienza e contendibilità al sistema del credito) appaiono come una semplice foglia di fico per altre motivazioni legate solo agli interessi delle vere lobby finanziarie. 

Le banche popolari si sono sempre confrontate e continuano a confrontarsi al pari di tutte le altre in un mercato aperto, concorrenziale e sono sottoposte alla vigilanza giustamente stretta della Banca d’Italia sui parametri contabili. E sono una realtà che proprio per le caratteristiche storiche hanno decine di migliaia di soci, vedono una grande partecipazione alle assemblee, hanno iniziative e sostengono attività di tipo sociale anche al di là degli stretti obiettivi di profitto.

L’attacco alle banche popolari è quindi un altro capitolo dell’insofferenza della politica verso le espressioni di democrazia economica e sociale: è nella stessa logica dell’aumento del prelievo fiscale sui dividendi incassati dalla Fondazioni bancarie. Altre realtà, quelle delle Fondazioni, fortemente legate agli interventi sociali e al territorio.