Le fotografie di Capa, per ricordare le ferite del Novecento
Dalla guerra civile spagnola al secondo conflitto mondiale, dal regime stalinista al Vietnam: tanti i contesti immortalati dal fotografo ungherese, di origine ebraica, Robert Capa, vissuto nel periodo dei totalitarismi, dal nazifascismo al comunismo. In vista dei 110 anni dalla sua nascita, il Mudec di Milano gli dedica una mostra.
“Una foto è il ritaglio di un fatto, che mostra la realtà vera a chi non era presente molto più dell’intera scena”. Questa la personale definizione di fotografia di Robert Capa – all’anagrafe Endre Ernö Friedmann, di famiglia ebraica – nato a Budapest nel 1913 e morto in Vietnam nel 1954. Il Museo delle Culture (Mudec) di Milano gli dedica, fino al prossimo 19 marzo, una mostra.
Per mostrare la realtà vera, Capa inizialmente sogna di diventare giornalista, ma per mantenersi a Berlino, dove si rifugia dopo l’arresto in Ungheria per le sue simpatie comuniste, trova un impiego in uno studio fotografico. Nasce così la sua passione per l’immagine istantanea, che potrà sviluppare pienamente quando, a causa dell’avvento del nazismo, si trasferirà a Parigi nel 1933. Qui incontrerà Gerda Taro, fotografa autodidatta, che diventerà la sua compagna. L’ambiente parigino è stimolante, stringe amicizia con giovani fotografi, come David Seymour e Henri Cartier-Bresson, con cui condivide un comune linguaggio dell’immagine; più tardi si uniranno nella cooperativa di fotografi Magnum Photos.
Soffiano venti bellici e nel 1936 Capa è pronto per documentare la Guerra civile spagnola. Sul fronte di Cordova diventa famoso in tutto il mondo per una foto scattata a un soldato dell’esercito repubblicano nell’attimo in cui viene colpito a morte dai franchisti, la celebre Morte di un miliziano lealista. Un emblema indiscusso della brutalità della guerra, ancor oggi così vicina in Europa, in Ucraina, e non meno crudele. Capa si schiera con la sua macchina fotografica. D’altra parte ha confessato apertamente il filtro della sua visione, affermando con sicurezza: “In una guerra, si deve odiare qualcuno oppure amare qualcuno; è necessario avere una posizione, altrimenti non si potrà sopportare ciò che avviene”. Una scelta problematica e non certo imparziale, nata in un periodo in cui si affermano i più feroci totalitarismi, dal nazifascismo al comunismo. Il fotografo rischia a sua volta la vita per documentare il dramma di chi combatte e muore.
“Se le tue foto non sono un granché vuol dire che non eri abbastanza vicino”. È quasi un obbligo morale quello che si impone Capa, soprattutto dopo la morte della compagna Gerda Taro sul fronte spagnolo, nel luglio del 1937. E che lo porterà poco più che quarantenne a una fine prematura in Indocina. La tappa successiva sarà l’invasione giapponese in Cina, dove il suo sguardo acuto sarà colpito prima dai bambini-soldato, poi anche dai volti impenetrabili del generalissimo Chiang-Kai-shek e della bella e altera moglie. Per sconfiggere gli aggressori giapponesi i nazionalisti decidono di collaborare con il comunista Zhou Enlai, ripreso da Capa accanto a un ritratto di Karl Marx. Di Mao Zedong non gli fu però consentito di scattare alcuna foto.
Le immagini del secondo conflitto mondiale sono le più impressionanti, sia quelle di guerra sia quelle che ritraggono le sofferenze della popolazione. Anche i bambini e gli anziani sono coinvolti nel clima di paura e nelle terribile distruzioni, come mostra con evidenza lo scatto della ragazzina che con impegno impara a indossare la maschera antigas o del vecchio appoggiato a due bastoni, davanti al rifugio antiaereo nella Londra del 1941. I soldati che combattono, invece, hanno il volto di sfida del pilota che colleziona sulla carlinga del suo aereo tante svastiche, quanti sono i velivoli nazisti abbattuti; o la camminata faticosa del militare statunitense che si muove sul terreno desertico tunisino; o - nella celebre icona dello sbarco alleato in Sicilia - lo sguardo attento dell’ufficiale americano, accovacciato per ascoltare con attenzione le parole del piccolo contadino siciliano, che con sicurezza gli indica la strada. Famosissime poi le immagini, ancorché sfocate per problemi tecnici, dello sbarco in Normandia a Omaha Beach, il 6 giugno 1944. Tanti fronti e tante situazioni, comprese quella della resa tedesca, incarnata dall’ufficiale delle SS, ferito ma dallo sguardo ancora fiero, perquisito dopo la cattura. Oppure la condanna feroce di chi in qualche modo aveva collaborato con l’occupante, sempre nella Francia liberata, come la donna col capo rasato, che ha fraternizzato con un soldato nemico, al punto da portarne ora il figlio tra le braccia. E i volti esultanti della Parigi restituita ai francesi. Le rovine delle città e dei villaggi però, sia nei paesi alleati che in Germania, sono angoscianti come quelle delle guerre attuali.
L’impresa più difficile per Capa è stata oltrepassare la cortina di ferro per visitare l’Unione Sovietica postbellica. In viaggio insieme a John Steinbeck, scrittore accettato dal realismo socialista russo, il fotografo nell’estate del 1947 immortala ciò che il regime gli propone, in itinerari rigidamente controllati, conformi alla propaganda stalinista. Tuttavia è più che sufficiente e illuminante ciò che appare nel suo reportage “sotto tutela”: una Stalingrado spettrale, una Kiev semidistrutta, misere fattorie collettive (ma col volto della Madonna a proteggere il parco pranzo) e il tristissimo ballo tra donne che guardano diffidenti nell’obiettivo della macchina fotografica, come chi non vuole o non può svelare nulla di sé.
Gli ultimi scatti in mostra sono dedicati alla nascita dello Stato di Israele dal 1948 fino al 1950, con gli occhi pieni di speranza di chi arriva in Palestina dopo la tragedia dell’Olocausto, con solo qualche sacchetto come unico bagaglio e gli sguardi tristi dei bambini. Purtroppo del nuovo conflitto in Indocina, scoppiato nel 1954, restano poche immagini, perché lì Capa morirà calpestando una mina antiuomo. Ripercorrere una parte importante della storia del XX secolo con le fotografie del reporter ungherese è una preziosa occasione: per chi di quegli anni sa già molto, ma soprattutto per i giovani (pensiamo ai maturandi, per esempio) che del Novecento possono imparare a conoscere le tragedie, insieme all’eterno desiderio dell’uomo di pace e libertà. Che vengono solo da Cristo.