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ARCHITETTURA SACRA

Le chiese moderne che sembrano di un dio ignoto

Simil-crematori, forme "organiche"
che ammiccano al mare, strutture "accortocciate". Chi ci riconosce edifici per il culto cattolico è bravo.

Cultura 12_02_2011
Chiesa di S. Donato, Arezzo

Che le chiese moderne siano brutte non è un luogo comune qualunquista. Il giudizio unisce per una volta semplici fedeli, critici d’arte, intellettuali laici fino ad arrivare a monsignor Gianfranco Ravasi, in pratica il ministro della cultura e dei beni culturali del Vaticano, che su questo argomento ha voluto citare padre Turoldo, «oggi le chiese sono come un garage dove Dio viene parcheggiato e i fedeli sono tutti allineati davanti a lui».

Eppure parecchie delle chiese nuove sono affidate agli architetti contemporanei più quotati, e il problema non può neanche risiedere nella convinzione religiosa o meno dei progettisti se uno degli ultimi esempi negativi è la chiesa di S. Paolo a Foligno, opera di un Massimiliano Fuksas neoconvertito per merito di Benedetto XVI, come ha dichiarato in un’intervista. In questo caso specifico, ci troviamo di fronte a un oggetto che in nessun modo rivela qualche parentela con la lunga tradizione delle chiese cristiane. Un enorme monolite in cemento, costituito da due parallelepipedi inseriti uno nell’altro e collegati da elementi a forma di tronco di piramide, muto, al contrario delle vere architetture che cantano, come diceva Enzo Paci.

Proprio questi elementi - il tipo di composizione astratta, la semplicità frutto della trasposizione schematica di moduli geometrici e non del difficile processo che, nell’apparente semplicità formale, condensa complessità e articolazione - rivelano la loro discendenza dagli indifferenziati templi di una metafisica come era pensata dagli architetti rivoluzionari illuministi, nella Francia del 1700.

Si comincia con Blondel e la facciata di chiesa conventuale simile a un monumento funebre, in cui è un obelisco a sostenere la croce, si prosegue con il suo allievo più celebre, Boullèe i cui cenotafi sono il riferimento obbligato per ogni architetto che si accinga a costruire nuove chiese e i cui disegni di chiese metropolitane (nessuna dedica ai santi, alla Madonna, a Cristo, sono scomparsi tutti) paiono il modello del campidoglio di Washington o dell’Opèra di Parigi. Si arriva poi a Lequeu che conclude la parabola, dopo templi del Silenzio e di Iside o santuari persiani, con il Tempio al Dio ignoto.

E a un dio ignoto sembrano di fatto appartenere le chiese moderne.
Architetture algide, fredde e spoglie quelle proposte dagli architetti francesi, così come le contemporanee, nate dal gesto del progettista, fortemente demiurgico allora e un po’ più glamour oggi, che interrompe il legame storico con il popolo che sta dietro alla costruzione di ogni chiesa.

Gli ambienti nudi, la scarsa varietà dei materiali impiegati, l’intervento minimo dell’iconografia e, come conseguenza, l’assenza quasi totale di artisti e artigiani qualificati, ci ricordano come, al contrario, il legame del popolo nell’edificazione della Casa di Dio per secoli si fosse manifestato in modo molto concreto. Nel lavoro di artigiani, muratori, scalpellini, decoratori, stuccatori che si davano il cambio generazione dopo generazione in quei cantieri infiniti che erano le cattedrali e nelle quali si racchiudeva il meglio della capacità di “fare” tipica dell’uomo.

Quella particolare modalità che Pavel A. Florenskij definiva con queste parole: una costituzione di spirito del tutto particolare: abitudini ed esperienza ricevute in eredità e formate nel corso dei secoli… Probabilmente il tipo più sano di processo creativo, che scorre sempre entro argini ben precisi, senza sofferenze, senza ansie, senza romanticismo, senza lacrime e senza estasi, con una tranquilla sicurezza nella propria mano, che sa già da sé cosa deve fare…questa maestria è lontanissima dallo spirito del nostro tempo, dove tutto è basato sulla sincerità lancinante e sullo sconcerto, oppure sul desiderio di produrre qualcosa di diverso da ciò che è già stato fatto da altri, di vedere, stupire, colpire, e sul terrore di poter andare a finire casualmente su una strada già percorsa da qualche altro.

Oggi nessuno entra in una chiesa moderna per ammirare un affresco, un altare, un bassorilievo, per vivere la bellezza dello spazio interno e della luce che filtra attraverso le vetrate, eppure l’esperienza del bello è una di quelle che con più forza avvicina l’uomo a Dio, come la Chiesa ha sempre saputo.
Ma a scorrere le pagine del catalogo della mostra internazionale di Architettura per lo spazio sacro, tenuta a Bologna nel 1996 con il patrocinio della Cei, viene il dubbio che forse non lo sappia più e che  le colpe non siano da addebitare solo agli architetti per i loro progetti, ma anche alla committenza religiosa che li approva.

È difficile dalle piante capire che si tratta di edifici per il culto, scordiamoci navate, transetti, absidi, cappelle laterali, cripte, prevale la pianta centrale, modificata e deformata in tutte le possibili accezioni:ellissi, prismi, triangoli, cerchi, quadrati.
E quando il modello è la pianta rettangolare, non è assimilabile a nient’altro altro che a un’aula (di tribunale, di mensa aziendale, per conferenze, per rappresentazioni teatrali?). Quasi assenti i campanili, la verticalità è modesta o nulla e se proprio la si vuole sottolineare spesso non si trova altra soluzione che la forma stilizzata del pino natalizio, con falde inclinate fino a terra, alla maniera di un’ipotetica baita che non esiste neppure in montagna.

 Anche le recenti pubblicazioni degli esiti dei concorsi promossi dalla Cei per le nuove chiese italiane, parlo del 2010, non propongono esempi incoraggianti.
Eppure ogni progettista era supportato da un sacerdote liturgista, proprio per evitare ridicole invenzioni soggettive da parte dell’architetto. E a leggere le relazioni di presentazione dei progetti vincitori, o comunque dei secondi e terzi classificati, prima ancora di esaminare le tavole e i rendering, spesso non si può che essere d’accordo con le intenzioni. Ma è come se poi alle parole non corrispondessero le azioni e si producesse uno scollamento insanabile tra i due termini.

Per cui ci ritroviamo di nuovo con chiese che sembrano crematori (S. Giorgio Martire, Dresano), chiese afasiche, dove l’esposizione del crocifisso è l’unica concessione all’iconografia cristiana. Scomparsa ogni traccia di racconto biblico, vuoi pittorico, vuoi scultoreo, rimangono spazi minimalisti e mortiferi, oppure forme “organiche”, che siccome siamo vicini al mare (S. Giovanni Battista, Porto Recanati) si ispirano alle onde, oppure addirittura chiese attente a ridurre al minimo il fabbisogno energetico in modo da poter classificare l’edificio in Classe energetica A (!).

O ancora progetti di chiese “accartocciate” (Madonna del Carmelo, Racalmuto), ispirate ai lavori di Frank Gehry, che se arriva un terremoto a distruggerle nessuno se ne accorge.
Insomma, anche con il liturgista che fiata sul collo, sembra che non si sappia dove sbattere la testa.