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IRAQ

L'avanzata dell'Isis. Il silenzio di Obama

Gli jihadisti dell'Isis conquistano ai curdi altre tre città nel Nord iracheno e due pozzi di petrolio. Scacciano i cristiani togliendo loro l'acqua. Distruggono moschee sciite. Perseguitano la minoranza yazidi. E annunciano piani di destabilizzazione. Gli Usa battano un colpo.

Esteri 05_08_2014
Isis

Mentre l’attenzione dei media è ancora concentrata sul conflitto a Gaza, i miliziani jihadisti dello Stato Islamico (ex Isis) conquistano altre tre città in Iraq, due pozzi di petrolio e annunciano il loro programma di espansione e destabilizzazione. Eppure pochi ci fanno caso e, sicuramente, nessuno pensa di andare a combatterli mandando truppe sul campo.

L’ultima avanzata, apparentemente inarrestabile, dei guerriglieri jihadisti, è avvenuta a spese dei Peshmerga, le forze di autodifesa curde nel Nord iracheno. Entro la giornata di domenica, sono cadute nelle mani dello Stato Islamico anche le città di Sinjar e Wana, nei pressi di Mosul, l’epicentro del nuovo “Califfato”. Subito dopo aver preso Sinjar, secondo fonti locali curde, i miliziani dell’Isis avrebbero distrutto la moschea sciita di Sayyeda Zeinab, giusto per affermare che l’unica vera religione è quella musulmana, sunnita, interpretata nel modo più intransigente possibile. Gli jihadisti avrebbero poi conquistato, di slancio, anche una terza città, Zumar, che era sotto il controllo dei curdi. Secondo fonti della North Oil Company irachena, i guerriglieri avrebbero occupato anche due piccoli pozzi di petrolio nei paraggi delle città conquistate.

I Peshmerga non intendono affatto rinunciare alle aree che hanno appena perso e stanno organizzando una loro controffensiva. Benché fra i curdi e il governo sciita di Baghdad non sia mai corso buon sangue (a causa del secessionismo dei primi), è di ieri la notizia che l’esercito regolare abbia offerto il suo appoggio aereo. Di fronte al pericolo più grave, quello di essere sommersi dalle milizie dello Stato Islamico, il secessionismo curdo, una questione vecchia di 90 anni, passa in secondo piano.

A Sud, il governo di Baghdad controlla ormai quasi solo le province sciite, ricevendo aiuti consistenti dal vicino Iran. Il pericolo, oltre a un Nord controllato da milizie jihadiste sunnite, inizia anche ad essere quello di un Sud tenuto in ostaggio dalle altrettanto violente e fanatiche milizie sciite. Nel 2004, il contingente italiano era stato testimone della violenza dell’insurrezione di Moqtada al Sadr e del regno del terrore che aveva instaurato nelle città da lui controllate. Questa violenza sta tornando. Una spia è l’attacco scatenato contro i sunniti di Baghdad mercoledì scorso, da parte di terroristi sciiti. Quindici le vittime, tutte impiccate con cavi elettrici ai lampioni e tenuti appesi il più a lungo possibile, per dare “l’esempio” al resto della popolazione. I sunniti, lungi dal rimanere inerti, hanno effettuato con due attentati, un’autobomba nel quartiere sciita di Sadr City (16 morti) e un attacco alla polizia (5 morti). Difficile anche stabilire chi abbia attaccato per primo e quale sia la vendetta. Baghdad, in ogni caso, rischia di scivolare di nuovo in un periodo di dure lotte settarie.

Prese fra due fuochi in una guerra senza regole, le minoranze religiose sono quelle che subiscono la sorte peggiore. I cristiani di Mosul rischiano di scomparire del tutto dopo 2000 anni di presenza. In un gesto di solidarietà molto coraggioso, una telegiornalista irachena Dalia Al Aqidi è andata in onda con una croce al collo, nonostante fosse musulmana. Ha definito la distruzione sistematica della comunità cristiana irachena, condotta dallo Stato Islamico, come “una perdita per tutti”. «I cristiani fanno parte della popolazione indigena di questa terra e non possiamo andare avanti senza di loro, né senza qualche altra componente dell’Iraq». A parte queste manifestazioni di solidarietà, ammirevoli proprio per la loro spontaneità, il governo di Baghdad non sembra avere né la volontà, né la possibilità concreta di proteggere i cristiani. Mentre i miliziani dello Stato Islamico stanno facendo di tutto per completare la loro “pulizia religiosa”. Dopo aver intimato ai cristiani la conversione all’islam o la morte e dopo aver marcato le loro case con la “N” araba di Nazareno, dalla fine di luglio, a partire dalle aree che controllano, gli jihadisti stanno chiudendo le condotte di acqua che alimentano i villaggi a maggioranza cristiana e la città di Qaraqosh, che ha accolto migliaia di profughi ed è ancora sotto il controllo dei Peshmerga curdi. In questo modo, sperano di ottenere il loro scopo (la cacciata dei cristiani) anche senza combattere.

La conquista di Sinjar, Wana e Zumar, sta inoltre cancellando un’altra componente della società irachena, quella degli yazidi, membri di una setta di antichissima origine, affine allo zoroastrismo. Ce n’erano mezzo milione, soprattutto nel Nord dell’Iraq, adesso sono costretti alla fuga anch’essi, a decine di migliaia. A Sinjar si erano rifugiati anche gli sciiti di origine turkmena, altro bersaglio degli estremisti sunniti. L’Onu ha lanciato l’allarme per l’emergenza umanitaria, ma non ha forze sul campo per poter aiutare le popolazioni in fuga.

E intanto, il nuovo Califfato, il governo stabilito dagli jihadisti nelle regioni conquistate dell’Iraq e della Siria, non cela affatto i suoi intenti e le sue strategie. La settimana scorsa ha pubblicato, in tutte le lingue, il primo numero della sua rivista ufficiale, Dabiq, incredibilmente piacevole a vedersi (così come lo era Inspire, la rivista di Al Qaeda), in carta patinata e ricca di foto. Un lavoro da professionisti della comunicazione, insomma, per reclutare musulmani e proclamare gli obiettivi di breve e lungo periodo. “Dabiq”, nella tradizione musulmana, è il luogo, a Nord di Damasco, dell’ultima battaglia contro le forze del male, l’equivalente dell’Armageddon della tradizione ebraica. Nella rivista ufficiale del nuovo Califfato iracheno e siriano, molta enfasi viene posta all'eredità di Al Zarqawi, il leader ideologico e militare di Al Qaeda in Iraq (poi messosi in proprio) che venne ucciso dagli americani nel 2006. Sua è la strategia in tre fasi, che viene riproposta dal “califfo” Al Baghdadi: terrore (con attentati e sabotaggi), destabilizzazione politica e consolidamento del potere. Lo Stato Islamico, dalle pagine della sua rivista, invita i musulmani di tutto il mondo a emigrare nell’Iraq “liberato”, a unirsi alla jihad e ad esportare terrore e destabilizzazione all’estero. Fino al consolidamento del potere islamico, per porre fine al caos e instaurare la legge coranica. Il raggio di azione di questa strategia è potenzialmente illimitato. Il Califfato non ha mire territoriali, ma universali. L’obiettivo è il mondo, a partire da quel che fu l’Impero Arabo, Gerusalemme, la Mecca, la Spagna, Roma, luoghi simbolici di una potenza mondiale che si vorrebbe far risorgere.

I seguaci del Califfo credono in questo progetto, fin dove possono arrivare lo attuano. La loro stessa presenza ha cancellato i vecchi confini della Mezzaluna Fertile, sta creando scompiglio anche nella parte di Iraq tuttora libera dal loro regime. Eppure la reazione internazionale è: nulla. Fin dal mese di giugno, quando l’Isis espugnava, una dopo l’altra, le città settentrionali irachene, gli Usa annunciavano l’arrivo di droni e forze speciali, a sostegno dei regolari iracheni. Eppure l’Isis è ancora al potere e ha il controllo di un’area sempre più vasta. Washington aveva chiesto al premier sciita iracheno, Al Maliki, di farsi da parte e formare un esecutivo di unità nazionale. Missione impossibile, in un momento di guerra civile fra sciiti e sunniti, a cui il premier ha detto “no”. Da quei giorni concitati di giugno in poi, forse proprio per quella risposta negativa, gli Stati Uniti paiono aver incrociato le braccia. Il loro è un silenzio assordante e inquietante, considerando la posta in gioco. E considerando, soprattutto, che l’Iraq è ancora, in parte, responsabilità di Washington. Il presidente Barack Obama non può far finta di nulla: fino a due anni e mezzo fa, in Iraq, c’erano le truppe americane, a cui era affidata la sicurezza del Paese. Non può dire che la questione non lo riguardi, trattandola come un qualunque lontano, esotico, conflitto. La lotta contro gli Usa, così come contro tutti gli “infedeli” è al centro della predicazione dello Stato Islamico. O gli Stati Uniti si occuperanno del caso … o sarà questo “caso” a occuparsi di loro.